di Antonio Salvati
La letteratura è molto vasta e le forme codificate innumerevoli. Pertanto, resta assai difficile redigere un elenco di libri da leggere assolutamente nella vita. Sono, ovviamente, tanti. Tra questi annovero quello di Stefan Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo (Garzanti 2022, pp. 384, € 14). Scritto negli anni dell’esilio e pubblicato postumo nel 1942 a Stoccolma, il libro è decisamente di più di una auto-biografa, come può apparentemente apparire.
Zweig è stato tante cose oltre a essere un grande scrittore, drammaturgo e giornalista. Ne Il mondo di ieri, uno dei suoi volumi più noti, racconta le vicissitudini di un’intera generazione, la sua, che visse un’esperienza «unica, irripetibile, che come nessun’altra nel corso della storia è stata gravata di eventi». Zweig descrive una generazione benestante nata e cresciuta nella degli ultimi decenni dell’Ottocento nell’opulenta Vienna – nella quale il contributo dato dalla borghesia ebraica alla cultura viennese, attraverso la promozione ed il sostegno delle arti, è stata inestimabile – della Belle Epoque, un «mondo ordinato, con chiare stratificazioni e comodi passaggi, era un mondo senza fretta. Il ritmo della nuova velocità non si era ancora propagato dalle macchine, dall’automobile, dal telefono, dalla radio e dall’aeroplano sino nell’uomo: il tempo e l’età avevano altre misure». Un ambiente tutto doveri e rigidezza morale, scandito da noiosissime lezioni scolastiche e dalla forte rigidità di certi ordini familiari ai quali si cercava in tutti i modi di sfuggire andando a teatro o immergendosi nei libri di artisti come Rainer Maria Rilke, scrittore che Zweig amò da liceale e di cui divenne amico.
Una generazione che ebbe la possibilità di conoscere, nei primi decenni del XX secolo, uno straordinario fermento culturale – molto diffuso nella sua città d’adozione Vienna, metropoli “sovranazionale”, improntata alla più austriaca delle virtù, la “conciliazione tra i popoli” – fino a sperimentare il lento declino di un mondo che, con lo scoppio della Grande Guerra, conoscerà una nuova Europa: stravolta dall’odio e dal nazionalismo, affamata dall’inflazione e dalla crisi economica, le cui cicatrici indelebili costituiranno l’humus fertile sul quale si svilupperà la fatale parabola del nazismo. L’intero Ottocento – ricorda Zweig – fu «sinceramente vittima dell’illusione che con il solo potere della ragione si potesse risolvere ogni conflitto». A partire dall’ultimo decennio del XIX secolo si era «rinvigorito l’organismo economico dei paesi, la tecnologia aveva accelerato i ritmi di vita, le scoperte scientifiche erano l’orgoglio della nuova generazione; cominciava un’ascesa che si poteva avvertire quasi contemporaneamente in tutte le nazioni della nostra vecchia Europa. Le città divenivano di anno in anno più belle e più popolose». Mai l’Europa fu più forte, ricca, bella, «mai credette con più intima convinzione a un futuro migliore; e nessuno, al di là di un paio di vegliardi rugosi, rimpiangeva i “bei vecchi tempi”». Le ragazze non erano più timide e pudiche, «sapevano cosa volevano e cosa non volevano. Sfuggite all’ansioso controllo dei genitori, si guadagnavano da vivere come segretarie o impiegate, rivendicando così anche il diritto di plasmare la propria vita». In quegli anni molti assorbirono lo slancio vitale dell’epoca, «attingendo nuova fiducia personale da quella collettiva. […] Ma tutto ciò che ci colmava di gioia rappresentava», senza che in tanti non se ne accorgessero «anche un pericolo». Con la fiducia verso l’avvenire arrivarono anche le nubi. Forse il progresso era stato troppo rapido, «e la percezione della forza seduce sempre uomini e Stati a farne uso e abuso». Difficile per Zweig individuare un motivo ragionevole, una causa determinante che portò alla Grande Guerra. Certamente influì «quel sentimento che amavamo al di sopra di ogni cosa: il nostro comune, sconfinato ottimismo. Ognuno, infatti, era convinto che l’altro avrebbe fatto un passo indietro all’ultimo momento; e i diplomatici diedero il via al gioco del bluff reciproco». Il 28 giugno 1914, a Sarajevo, si distrusse in un solo istante «il mondo della sicurezza e della ragione creatrice in cui eravamo nati, cresciuti e che sentivamo come nostro, sfracellandolo in mille pezzi come un vaso di argilla vuoto». […] «Inerme e impotente, dovetti essere testimone della inconcepibile ricaduta dell’umanità in una barbarie che si riteneva da tempo obliata e che risorgeva invece col suo potente e programmatico dogma dell’anti-umanità».
Nel primo dopoguerra Zweig, convinto antifascista, si oppose risolutamente contro i totalitarismi nascenti. Abbandonò l’Austria dopo l’Anschluss, anche per le sue origini ebraiche, e lasciò l’Europa continentale dopo l’avvento al potere del nazionalsocialismo. Con la seconda guerra mondiale imminente si rifugiò negli Stati Uniti e, infine, in Brasile, costretto a provare «quell’orribile condizione dell’essere senza patria, impossibile a spiegarsi a chi non l’abbia provata su sé medesimo, quel senso esasperante di procedere ad occhi aperti nel vuoto, sapendo che dovunque si appoggi il piede, ad ogni istante si può essere ricacciati indietro». Nel corso dell’esilio Zweig conservò fortemente la convinzione «secondo cui i buoni libri sono in grado di sostituire la migliore delle università, e sono convinto ancora oggi che si possa diventare eccellenti filosofi, storici, filologi, giuristi e via dicendo senza aver mai frequentato l’università né il liceo». Eppure – avverte acutamente l’autore – «un popolo o una città non si possono mai conoscere al loro apice, nella loro essenza più intima, attraverso i libri o una visita, sia pure la più scrupolosa, ma sempre e soltanto tramite i suoi uomini migliori. Solo l’amicizia con i vivi ci permette di intuire i veri rapporti tra popoli e paesi; qualsiasi osservazione esterna resta un’immagine frettolosa e approssimativa».
Zweig visse con notevole forza di partecipazione i due conflitti mondiali – «mai ho avvertito, in un popolo o addirittura in me stesso, una volontà di vivere così intensa come in quegli anni, perché la posta in gioco era altissima: la nostra stessa esistenza, la sopravvivenza» – e seppe individuarne le differenze. La guerra del 1939 aveva una motivazione spirituale: «si combatteva per la libertà, per preservare il bene morale; e lottare per un ideale rende un uomo duro e deciso». La guerra del 1914, al contrario, «non sapeva nulla della realtà, si limitava ancora a servire un’illusione, il sogno di un mondo migliore. E soltanto l’illusione, non la conoscenza, rende felici. Perciò le vittime andarono al macello cantando e inneggiando, gli elmi cinti di fiori e foglie di quercia, l’ebrezza nel cuore, mentre le strade luccicavano e riecheggiavano in festa». Un’altra differenza cruciale distinse chiaramente la prima dalla seconda guerra mondiale: «in quei primi anni del secolo la parola aveva ancora potere. Ancora non era stata condannata a morte dalla menzogna organizzata della “propaganda”: gli uomini vi prestavano ancora ascolto pieni di aspettativa».
Soffrì molto durante l’esilio. Non solo per le sue crisi depressive, ma anche per la sua mancanza di speranza per il futuro dell’Europa. Nel contempo, «in quella terra neutrale, si viveva spiritualmente la guerra con molta più intensità che nel proprio paese belligerante, perché il problema veniva per così dire oggettivato, con totale distacco dall’interesse nazionale per una vittoria o una sconfitta. La guerra non veniva più osservata da un punto di vista politico ma europeo, come un evento violento e brutale che non avrebbe trasformato soltanto una manciata di linee di confine su una mappa geografica, ma la forma e il futuro del nostro mondo». Tanta angoscia e inquietudine contraddistinguono gli ultimi capitoli dell’opera. Rappresentano l’orrore di un uomo e di un popolo che improvvisamente si ritrovano privati di tutto: dei propri diritti, dei beni conquistati in tanti anni di lavoro, della libertà intellettuale, del futuro.
Zweig in maniera lungimirante ebbe la prontezza di fuggire, prima in Inghilterra, successivamente a New York e in Brasile da dove scrisse preziose riflessioni che rappresentano il suo testamento spirituale che Zweig consegnato alle generazioni future a venire, un’analisi lucida e appassionata della tragica eredità in cui affonderanno le radici del “mondo di domani”: «Ho conosciuto il grado e la forma più alta della libertà individuale, per vederla poi al più basso livello cui sia scesa da secoli; sono stato festeggiato e perseguitato, libero e legato, ricco e povero».