Per accreditarsi e tranquillizzare Washington e Bruxelles, anche alla luce delle ultime sortite “filorusse” dell’alleato Salvini, l’entourage di Giorgia Meloni ha fatto arrivare alla stampa il rumor per cui l’autocandidata a Palazzo Chigi intende avocare a Fratelli d’Italia – che i sondaggi danno come primo partito alle elezioni del 25 settembre – dicasteri-chiave come gli Esteri e la Difesa, affidandole a personalità di marcato profilo filoatlantico. Ecco cosa attende l’Italia. Un sovranismo sbandierato, ma mai praticato, e una subalternità assoluta, nelle scelte politiche che contano, all’America.
Una storia complicata
Per comprendere appieno le mosse di Meloni occorre fare un passo nella storia della destra dalla quale la leader di FdI proviene: la storia del Movimento sociale italiana. A tal proposito, di grande interesse è l’articolo a firma Aldo Di Lello sul Secolo d’Italia. Pubblicato il 5 aprile 2019, nei giorni in cui si celebrano i 70 anni della fondazione della Nato.
Il titolo: I 70 anni della Nato visti da destra: perché il Msi si oppose e poi cambiò idea. Un grande dibattito”
[…] In questi giorni si ricordano i 70 anni della Nato. Si tratta di 70 anni a luci e ombre e che, per la destra italiana, sono stati a lungo segnati da un appassionato dibattito. La necessità di fronteggiare il comunismo sovietico e le sue quinte colonne italiane portò il Msi, negli anni della guerra fredda, ad assumere sempre una chiara e coerente posizione atlantista. Questa posizione ha però sempre convissuto con un’altra anima, che poi era l’anima delle origini, tendenzialmente “terzaforzista” e ostile sia ad americanismo sia a occidentalismo.[…] Non fu comunque facile, per il Msi, accettare l’idea che bisognava stare dalla parte di americani e inglesi. Il dibattito si svolse soprattutto sulle riviste dell’epoca ed era animato da gente del calibro di Ezio Maria Gray, Giorgio Pini, Concetto Pettinato, Ernesto Massi, Filippo Anfuso. oltre naturalmente ad Almirante. De Marzio e altri. Fu proprio Anfuso a trovare, come si suol dire, la “quadra” e a ricomporre la frattura in un memorabile intervento che tenne al congresso dell’Aquila, congresso che sancì la “svolta atlantica” nel 1952. «Fate sì -disse- che si chiuda al più presto questa stupida rissa in un partito che, per guardare al tipo di Europa che noi, i vinti, intendiamo contribuire a costruire, deve avere l’intelligenza politica di superare sia l’atlantismo quanto l’antiatlantismo. La nostra strada è l’Europa». E oggi, che non c’è più l’Urss e che la Russia non appare più ostile? Forse sarebbe il caso, a destra, di tornare alle origini e riprendere il dibattito dopo 70 anni, Naturalmente con la consapevolezza che l’Europa di Anfuso era cosa ben diversa dall’Europa di oggi, l’Europa di Juncker ed eurocrati vari”.
Tre anni dopo, la Russia appare ostile. Ma la diffidenza a destra verso l’Europa degli “eurocrati vari” non è venuta meno.
Quanto alla leader di Fli, che oggi sbandiera un filoatlantismo a 360 gradi, vale quanto ricordato in una intervista concessa a chi scrive da Nadia Urbinati, accademica, politologa italiana naturalizzata statunitense, docente di Scienze politiche alla prestigiosa Columbia University di New York: “. E’ vero che Giorgia Meloni da quando ha fatto il suo discorso alla Convention repubblicana e poi ha preso posizione contro Putin, ha chiaramente posizionato se stessa dalla parte occidentale – annota Urbinati – Però io mantengo un certo scetticismo. Perché il suo rapporto con l’America è un rapporto con una parte, cioè Trump, il trumpismo e i repubblicani, che sono davvero tutto fuorché esempi di liberaldemocrazia. Quanto poi al fronte-Putin, anche qui sono dubbiosa. Perché è vero che lei ha criticato l’invasione dell’Ucraina. Ma è altrettanto vero che in varie occasioni ha espresso il suo favorevole giudizio (anche per criticare la sinistra, assumendola sempre e solo come “comunista ”) su “meglio Putin che l’Unione Sovietica”. Putin rappresenta per lei una evoluzione del precedente regime, nonostante questo non sia né più liberale di prima né più democratico, mentre certamente è capitalista a differenza di quello precedente. La sua posizione, similmente a quella dei repubblicani americani, è una posizione molto “strabica” rispetto ai valori democratici e liberali. Mentre è molto chiara sui principi socio-economici, che sono quelli dl capitalismo e del libero mercato. Se ci accontentiamo della “libertà” economica, lei c’è dentro, indubbiamente. Ma sulla libertà civile e politica, è molto manchevole. Fratelli d’Italia sono un partito immerso nella tradizione reazionaria”.
Così Urbani.
Tutto vero. Ma non per questo Giorgia Meloni appare in difficoltà in quell’operazione accreditamento verso gli Stati Uniti che la leader di FdI ha iniziato da tempo.
Chi viene da una storia come quella della destra neo-post fascista, ma a ben vedere il discorso vale anche sul fronte comunista, a un certo punto della propria scalata politica avverte la necessità di essere “sdoganato” da chi ha il potere di riaccreditare personalità dal passato “nero”.
E il potere che più conta in questa chiave è , per l’appunto, quello made in Usa.
Giorgia l’”americana”.
Scrive Franco Bechis per Formiche.net: “Un mese fa, nella ressa di Villa Taverna, un brusio ha iniziato a farsi sentire, “è arrivata”. Chi ha messo via i flute, chi ha staccato gli occhi da un hamburger e le orecchie dal jazz set sul palco. Alla tradizionale festa del 4 luglio all’ambasciata americana Giorgia Meloni è stata un’osservata speciale. Un mese dopo – crollato il governo Draghi sotto i colpi di Forza Italia, Lega e Cinque Stelle – la leader della destra italiana non solo sogna, ma vede più vicino il portone di Palazzo Chigi. E mentre la campagna elettorale d’agosto entra nel vivo, i riflettori della comunità internazionale tornano ad accendersi su Fratelli d’Italia e i piani della sua condottiera.
Non arriva impreparata, la Meloni. Perché non da mesi, ma da anni ha iniziato a tessere una tela di relazioni che disinneschi la più tipica delle mine sul cammino della destra verso il governo. E cioè i dubbi e le preoccupazioni di quell’establishment internazionale dal cui expedit, piaccia o meno, bisogna passare per governare il Paese: finanza, cancellerie europee, Washington DC. Su quest’ultimo fronte l’ex ministra della Gioventù ha fatto i compiti a casa. Lavorando per sfatare il cliché di una destra italiana intrisa di antiamericanismo.
Missione compiuta? Si scoprirà nelle prossime settimane. Certo la valanga di inchiostro sul “ritorno del fascismo” in Italia che ha di nuovo riempito patinati quotidiani americani – su tutti il New York Times – non è il migliore degli auspici. Ma la Meloni ha qualche asso nella manica. Stampa a parte, la parabola atlantista di FdI è ben presente a chi segue la politica italiana a Washington.
Un lavoro personale: Meloni vanta ottime entrature a Via Veneto, era in cordiali rapporti con l’ex ambasciatore Lewis Eisenberg e ha avuto una buona intesa con l’incaricato d’affari uscente, Thomas Smitham, pronto a lasciare il posto al successore Shawn Crowley. Un anno fa poi la scelta -svelata da Formiche.net – di iscriversi all’Aspen Institute, tra i più prestigiosi think tank d’oltreoceano.
Un lavoro di squadra. Perché a costruire il “recinto” di sicurezza americano in questi anni non c’è stata solo la presidente del partito. C’èAdolfo Urso, senatore e presidente del Copasir, un veterano. Che nel tempo ha lavorato per accreditare FdI oltreoceano, forte della guida del comitato di Palazzo San Macuto ma soprattutto della presidenza di Farefuturo, la fondazione di finiana memoria che nel direttivo conta atlantisti navigati, come l’ambasciatore Gabriele Checchia.
Ad Urso, già ministro del Commercio estero nel governo Berlusconi due, si deve fra l’altro la recente connectio con il più grande think tank americano di ispirazione repubblicana, l’International Republican Institute. Fondato negli anni ’80 sotto l’egida di Ronald Reagan, è un punto di riferimento per l’“old party” moderato, si ispira alla figura dello scomparso John McCaine nel team conta pezzi da 90 dell’Elefantino, da Mitt Romney a Tom Cotton fino a Marco Rubio. Da più di un anno il pensatoio americano ha iniziato a muoversi a Roma, con la regia del direttore del Programma Europa Thibault Muzuergues, e ha trovato in FdI una sponda solida.
C’è poi Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore, già ministro degli Esteri nel governo Monti. Voce ascoltata nel partito, suona uno spartito che piace nel mondo a stelle e strisce: durissimo con Russia e Cina, inflessibile sui diritti umani. Andrea Delmastro, deputato e responsabile Esteri, è un altro tessitore di peso della rete meloniana fra Washington e Bruxelles. C’è anche la sua firma sulla netta presa di posizione della Meloni sulla guerra in Ucraina, con una condanna senza appello di Vladimir Putin, una carta che si può giocare nelle relazioni transatlantiche una volta al governo.
Conta ancora Carlo Fidanza: europarlamentare di punta, è sparito dai radar negli ultimi mesi dopo la polemica sulla presunta “rete nera” in FdI nata da un’inchiesta di Fanpage, ma dietro le quinte è attivo e segue da vicino la diplomazia meloniana. Sempre a Bruxelles, è attivissimo Raffaele Fitto, ex governatore della Puglia, prima linea di quel Partito conservatore europeo che la Meloni guida da più di due anni e che ripara FdI dallo “stigma” sovranista all’Europarlamento. Negli ultimi mesi la rete si è allargata, anche ad esterni. Lo scorso aprile non è passato inosservato, ad esempio, l’intervento alla convention di Milano di Stefano Pontecorvo, ex inviato della Nato in Afghanistan, corteggiato dal partito e chiamato in causa come consigliere, anche se un ruolo attivo al momento è escluso.
Fratelli d’Italia, dunque, ma anche un po’ d’America. Il cammino americano della Meloni ha imboccato due strade diverse, ma tangenti. La prima con un progressivo avvicinamento al Partito repubblicano. Con Donald Trump la leader di FdI ha condiviso per ben tre volte il palco della Conservative Political Action Conference (Cpac), la più importante kermesse conservatrice negli States, riunita ogni anno ad Orlando, in Florida. Risale a due anni fa, poi, il primo invito alla National Prayer Breakfast, appuntamento imperdibile per i repubblicani che vede Trump ospite fisso. Una simpatia, quella verso l’ex presidente, che in Italia in un primo momento ha preso il volto di Steve Bannon, l’ex consigliere del Tycoon finito ora sotto processo al Congresso americano per l’assalto a Capitol Hill del 6 luglio. L’ombra di Trump genera ancora sospetti fra le cancellerie europee, e non a caso negli ultimi tempi la Meloni ha riorientato la bussola americana del partito. Bannon non è stato più invitato ad Atreju, l’annuale convention romana, e nell’Elefantino sono altri i riferimenti cui guarda FdI, forte dell’appartenenza alla famiglia conservatrice europea che a Trump ha sempre guardato storto.
La seconda strada è fatta di rapporti istituzionali, e deve ancora essere battuta. Perché, se sul piano politico gli agganci americani sono ormai solidi, lo stesso non si può dire dell’establishment di Washington DC. “Con l’amministrazione Biden ci sono stati tre, quattro tentativi di avvicinamento, ma non hanno avuto grandi riscontri”, racconta una fonte interna. Un gap da colmare, se l’aspirazione è davvero trasferirsi a Palazzo Chigi. Comunque vadano le elezioni di metà mandato in autunno – una probabile debacle per i democratici Usa – il prossimo premier italiano dovrà fare i conti con Joe Biden per altri due anni. E due anni per la politica italiana sono un’era geologica”.
Così Bechis.
Quello da lui tratteggiato è un ritratto a 360 gradi di Giorgia Meloni e del suo “partito americano”.
Sul fronte Atlantico, Giorgia Meloni è garantita- D’altro canto, la storia insegna che l’America preferisce avere alleati in Europa che possono essere condizionati, ammorbiditi, indirizzati. L’autorevolezza non è la prima virtù richiesta dai circoli americani. Quella che fa premio su ogni altra cosa è la fedeltà.
Per questo risulta caricata a salve l’arma polemica utilizzata dal segretario del Pd, Enrico Letta, contro Meloni. Non è mettendo in dubbio il suo filoatlantismo che Letta scalfirà l’immagine della leader di FdI in Italia e negli Usa. Una parte dell’America, quella che continua a riconoscersi in Donald Trump e nel trumpismo. Vede in Meloni una di loro, per le idee che professa e le battaglie che s’intesta: dio, patria, famiglia, il tutto declinato a destra. Una destra identitaria, dai forti tratti reazionari.
Di questa America Edward Luttwak, è uno dei volti più conosciuti in Italia, soprattutto per le sue numerose frequentazioni dei salotti mediatici nostrani. Parlando del viaggio di Meloni in America, lo scorso febbraio, in occasione della Convention repubblicana, febbraio ecco il Luttwak-pensiero “Nella sua visita in America Georgia Meloni ha sorpreso i molti politici che ha incontrato con la sua concretezza espressa in Inglese, lingua che non va bene per tradurre il politichese normale in cui la manovra è tutto e dei valori non si parla, ma va benissimo per la Meloni”. Che in una recente intervista a Fox News, la catena televisiva preferita dall’America trumpiana, ribadisce il suo credo filoatlantico: “”Noi siamo sicuri della posizione che l’Italia deve mantenere per difendere il proprio interesse nazionale”, ebbe a dire in quell’occasione”, “FdI anche dalla opposizione ha aiutato il governo Draghi a fare quello che doveva fare, a partire dal sostegno all’Ucraina. Quel conflitto è la punta dell’iceberg di un processo che punta ad una revisione dell’ordine mondiale. Se l’Occidente perde, a vincere sono la Russia di Putin e la Cina di Xi; e nell’Occidente gli europei sono quelli che pagheranno le conseguenze peggiori”
Quanto all’altra metà dell’America, quella che ha un suo rappresentante alla guida della Casa Bianca, ciò che conta è che Meloni sia “fedele” agli interessi Usa. E a questo ci pensa il “partito americano” di Giorgia.
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