Ho seguito il discorso di Giorgia Meloni alla Camera. Non solo il testo ma anche i toni, gli sguardi, le pause, le sottolineature. Provo a raccontarvi le impressioni che ne ho ricavato.
Innanzi tutto, una certa emozione nel vedere e ascoltare per la prima volta una donna Presidente del Consiglio. L’immagine di lei giovane e determinata che parla da quello scranno, con quel ruolo, circondata da vecchi arnesi della politica, quasi tutti maschi, ridotti a comprimari immagino invidiosi, che le riservano applausi di maniera, più diffidenti che calorosi, “con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni” come cantava De Andrè, devo dire che mi ha colpito. Per questo mi fa un effetto doppiamente negativo quel suo voler essere chiamata IL e non LA Presidente, quasi a sottolineare che lei è sì una donna ma con gli attributi maschili.
Il suo è stato un discorso infarcito di retorica, direi più da capa dell’opposizione che da premier, comunque fortemente identitario. Le “radici classiche giudaico-cristiane”, l’idea del sovranismo che dilaga ovunque (dall’alimentare alla tecnologia, dal made in Italy all’autonomia differenziata delle regioni), il rilancio del presidenzialismo quindi dell’uomo solo al comando, la parola Paese sostituita da Nazione. Poi la simbologia del linguaggio (“non ci manca il coraggio”, “tireremo diritto”), la rivendicazione orgogliosa delle proprie radici ideologiche (“provengo da un’area culturale spesso confinata ai margini della Repubblica”) e del percorso politico che l’ha portata fin lì (“non certo per amicizie influenti: sono una underdog, la sfavorita che per affermarsi deve stravolgere tutti i pronostici”).
Sul piano più politico, molti dei suoi cavalli di battaglia elettorali sono stati ammansiti o riportati ai box: l’Europa non più tiranna ma casa comune, “noi partner affidabili della Nato”, il Pnrr non più da riscrivere ma solo da aggiustare, la flat-tax che si farà poi, più avanti, forse, così come la riforma delle pensioni sbandierata ancora ieri da Salvini. Princìpi e visioni per il futuro, ma proposte e soluzioni vaghe sui grandi problemi dell’oggi che il governo si troverà a dover affrontare. Con alcuni tratti distintivi di questa destra italiana che sembra non evolversi mai: i condoni (“pace fiscale”, “tregua” sulle cartelle esattoriali), la lotta all’immigrazione con la riproposizione in forma aggiornata del blocco navale (“in Italia non si entra illegalmente”), il sostanziale arrangiatevi rivolto ai poveri e ai disoccupati che non riescono a trovare lavoro (“la risposta non è il reddito di cittadinanza”), l’occhiolino strizzato ai no vax (“sul Covid l’Italia ha adottato le misure più restrittive d’Occidente ma ha fallito, in nessun caso replicheremo quel modello”).
Ma rimane sempre il fascismo il tasto dolente, la nota più stonata, il passato con cui Meloni e i suoi fratelli di Fli e Lega non riescono o non vogliono fare i conti. La loro visione storica si rifà sempre al Risorgimento saltando a pié pari la Resistenza e la Costituzione antifascista. Se La Russa vuole istituire la festa della fondazione del Regno d’Italia, la premier si limita a dire “non ho mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici, fascismo compreso, e ho sempre reputato le leggi razziali il punto più basso della storia italiana”. Nessun cenno al 25 aprile, nessun riconoscimento al valore fondativo dell’antifascismo, addirittura relegato a una fazione della sinistra con la chiave inglese in mano che andava a menare nelle piazze quelli di destra, e perfino la Casellati e non Liliana Segre nel pantheon di Giorgia.
Tutto questo per dire che Meloni resta l’erede di una storia che mi fa orrore ed è portatrice di valori, idee e visioni della società e del mondo opposti ai miei. Ma è anche l’espressione del riscatto della politica (quel riscatto che a sinistra ancora non si vede), è una che ci sa fare, la dice giusta quando si definisce “underdog” e penso sia molto vero che punta a “stravolgere i pronostici”. Sarebbe un grave errore sottovalutarla.
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