Il Pd e la corsa di Bonaccini e Schlein: ma servirebbe cambiare un partito nato male e cresciuto peggio
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Il Pd e la corsa di Bonaccini e Schlein: ma servirebbe cambiare un partito nato male e cresciuto peggio

Secondo l’ultima indagine Demos, il 45% degli elettori del Pd ritiene che debba essere cambiato dalle fondamenta, senza escludere il cambio del nome, mentre aumentano i contrari alle primarie aperte a tutti

Il Pd e la corsa di Bonaccini e Schlein: ma servirebbe cambiare un partito nato male e cresciuto peggio
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Claudio Visani Modifica articolo

23 Novembre 2022 - 11.06


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Nelle stime di voto è in caduta quasi libera, al 16%, superato a sinistra dal partito di Conte, insidiato a destra da quello di Renzi e Calenda. Nel “sentiment” di quasi metà del suo popolo è un partito da rifondare. Molti a sinistra pensano che sia irriformabile e che la cosa migliore sarebbe lo scioglimento e la nascita di un nuovo soggetto politico.

Secondo l’ultima indagine Demos, il 45% degli elettori del Pd ritiene che debba essere cambiato dalle fondamenta, senza escludere il cambio del nome, mentre aumentano i contrari alle primarie aperte a tutti come metodo per selezionare i segretari. Coloro che credono nella possibilità che il Pd possa resistere mantenendo l’attuale (incerta) identità sono ormai solo militanti e apparato.

Tra gli iscritti e i dirigenti prevale la convinzione, o la speranza, che sia possibile cambiare anche solo cambiando il segretario. E questo perché, nell’era dei partiti personali, è diffusa l’idea che l’identità di una forza politica coincida con l’immagine del suo leader. Ma di segretari ne sono stati cambiati una decina in quindici anni senza cambiare la natura e il progetto di un partito nato male e cresciuto peggio, di ceto politico e potere, sempre più lontano dal “popolo degli ultimi e dei penalizzati” che originariamente lo votava e sempre più partito del ceto medio benestante e delle Ztl, diviso sulle scelte di fondo, in mano a capi-corrente e leader sempre meno di sinistra e sempre più democristiani.

È difficile immaginare che questa volta andrebbe diversamente, senza ripensare e correggere quel progetto originario. Quel che manca è una visione comune di mondo e di futuro, sono le idee e i contenuti di una chiara linea politica su temi di fondo quali il tipo di sviluppo, la sostenibilità e la crisi climatica, la guerra e la collocazione geopolitica, le diseguaglianze, i diritti. 

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Eppure, nonostante tutto questo, nonostante le agorà prima e la costituente ora, il dibattito è incentrato sul nuovo segretario dopo la disastrosa gestione Letta. In pole position questa volta ci sono due emiliani, e sarebbe una novità storica se ce la facessero; il presidente della Regione, Stefano Bonaccini, e la sua ex vice, Elly Schlein. Che, semplificando e forse banalizzando un po’, prefigurano il primo la definitiva collocazione liberal-democratica ma in chiave popolare del Pd, la seconda un partito della sinistra dei diritti ma in chiave radical chic.

Astenersi nostalgici del socialismo. E anche della socialdemocrazia. Quel mondo e quelle ideologie sono superati, destinati a finire in cantina. Si guarda oltre, anche se non si capisce ancora bene dove. In attesa di capirlo, sempre secondo Demos Bonaccini sarebbe largamente favorito su Schlein: per lui voterebbe un elettore su tre, mentre la sua rivale è accreditata al momento dell’8% delle preferenze. 

Vediamo allora di capire un po’ meglio chi sono i due contendenti. Stefano Bonaccini viene da una famiglia comunista, padre camionista e madre operaia, si diploma al liceo, comincia a fare politica nella sua Campogalliano e a Modena col Pci-Pds-Ds, aderisce al Pd e nel 2010 ne diventa segretario regionale con la mozione Bersani, che lui sostiene alle primarie del 2012 contro Matteo Renzi. Ma l’anno successivo passa con Renzi e diventa prima responsabile della sua campagna per le primarie del 2013, poi responsabile nazionale degli Enti locali nella sua segreteria.

Nel 2014 succede a Vasco Errani alla presidenza dell’Emilia-Romagna, ma viene eletto con meno del 50% dei voti (la prima volta per un candidato della sinistra) e con un clamoroso crollo della partecipazione (appena il 37% di votanti). Nel 2019 si ricandida e con l’aiuto determinante delle Sardine riesce a fermare l’ondata leghista e a battere la candidata di Salvini, Lucia Borgonzoni. In Regione governa con renziani, calendiani e sinistra ed è rimasto in buoni rapporti con Renzi dopo la sua uscita dal Pd; cosa questa che fa storcere il naso ai suoi detrattori, così come certe sue scelte politiche come il voto favorevole al referendum costituzionale per il taglio dei parlamentari e la battaglia per l’autonomia differenziata delle regioni, che è il cavallo di battaglia della Lega.

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Se Bonaccini gode di un forte sostegno nella sua regione, altrettanto non si può dire al Nazareno, dove soprattutto Letta e Franceschini sostengono la corsa della Schlein. Una sfiducia ricambiata da Bonaccini, che promette di battersi per superare le correnti interne e cambiare radicalmente il gruppo dirigente nazionale. Anche se è noto l’appoggio alla sua candidatura di Base Riformista, la corrente ex renziana del Pd. 

Elly Schlein è invece di origine borghese: padre ebreo americano, madre italiana, tre passaporti (uno italiano, uno americano e uno della Svizzera dove è nata), laurea in giurisprudenza, dichiaratamente bisessuale. Politicamente è la papessa straniera, ma la si potrebbe definire anche l’esule a casa propria, dal momento che non è iscritta al Pd, partecipa da esterna alla fase costituente del Pd e per consentirne la corsa si è dovuto apportare una modifica allo statuto del partito.

Nel suo curriculum spicca il ruolo di volontaria alle campagne elettorali americane per Barack Obama, quello da co-protagonista di #OccupyPd (il movimento che nel 2013 occupò alcune sedi del partito, allora guidato da Bersani, all’indomani dell’affossamento della candidatura di Romano Prodi al Quirinale) e la figuraccia sull’immigrazione che quattro anni fa fece fare a Salvini chiedendogli, in un video diventato virale, come mai non avesse mai partecipato a nessuna delle 22 riunioni sul trattato di Dublino che si erano tenute all’Europarlamento dove entrambi sedevano.

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A Bruxelles era stata eletta nel 2014 nelle file del Pd, per poi passare l’anno dopo Possibile di Civati, che già aveva sostenuto come segretario dem alle primarie vinte da Renzi. Nel 2020 è invece eletta con la lista Coraggiosa (Articolo uno, Sinistra italiana, Verdi) consigliera regionale dell’Emilia-Romagna, poi nominata da Bonaccini vicepresidente, carica che mantiene fino alla sua elezione a deputata il 25 settembre scorso, candidata con la lista Pd Democratici e Progressisti.

La sua corsa alla segreteria Pd, ancora in attesa di conferma, appare più orientata alla radicalità, non solo sui diritti ma anche sull’emergenza climatica, sul lavoro e per una posizione più cauta, non apertamente atlantista, sulla guerra e sulle armi a Kiev. Rimane però un corpo piuttosto estraneo al Pd.

I suoi detrattori le rimproverano in particolare di curare più l’immagine della sostanza e un eccesso di opportunismo politico. Prima di decidere se andare o no ai gazebo e chi votare, vorrebbero capire meglio cos’è questa fase costituente che si apre, dove vuole andare il Pd, con quali idee, programmi e linea politica. Intanto molti, soprattutto nell’elettorato più di sinistra, criticano due aspetti: il fatto che Bonaccini abbia annunciato l’intenzione – se verrà eletto – di mantenere il doppio incarico di presidente della Regione e Segretario Pd; l’abbandono anzitempo del seggio, della vicepresidenza in Regione e sostanzialmente anche di Coraggiosa da parte di Schlein. 

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