Se Atene piange Sparta non ride. A tre mesi dalle elezioni e due dalla nascita del governo Meloni, è tempo di primi bilanci per sconfitti e vincitori. Nel campo di centrosinistra si può dire che ancora non sono state rimosse nemmeno le macerie. Il Pd in piena crisi di identità e in caduta libera nei consensi, si avvicina al congresso e al cambio di segretario senza aver sciolto nessuno dei nodi che sono all’origine della sua crisi. All’opposizione non morde, alla manifestazione nazionale contro la manovra è riuscito a mobilitare solo poche centinaia di persone, e va incontro a sconfitte certe alle imminenti regionali nel Lazio e in Lombardia. Con i Cinquestelle in ascesa da una parte e il Terzo polo stabile dall’altra, entrambi impegnati più a erodere spazio e consensi all’ex alleato che a contrastare le politiche del governo, il rischio per i dem di finire come i socialisti in Francia è alto.
Va solo apparentemente meglio alla destra. Meloni e il suo partito continuano ad avere il vento in poppa, ma il 30% di cui sono accreditati i Fratelli d’Italia va a discapito degli alleati di Lega e Forza Italia, entrambi in progressivo declino, marginalizzati, insoddisfatti e quindi potenziali mine innescate per la tenuta della maggioranza. D’altro canto, alle sue prime uscite la Presidente del Consiglio è parsa non avere, in quel ruolo, lo stesso “quid” che ha dimostrato come leader di partito.
Detto questo, cosa rimane del debutto identitario della destra e cosa ci dice la manovra, primo vero banco di prova del governo Meloni? Il decreto rave è stato completamente riscritto e reso sostanzialmente innocuo. Lo stop agli sbarchi e la guerra alle Ong si sono rivelate un boomerang. L’abolizione della Fornero e l’aumento delle pensioni minime sono di là da venire (quota 103, con 62 anni e 41 di contributi, varrà solo per il 2023, mentre le minime saliranno da 525 a 600 euro solo per gli over 75), così come la flat-tax (la tassazione agevolata al 15% per autonomi e professionisti con partite Iva interesserà i redditi fino a 85mila euro invece dei 65mila attuali, creando una clamorosa iniquità sociale con i lavoratori dipendenti che a parità di reddito pagano il 43%). Sull’esenzione da Pos fino a 60 euro, infine, la Ue ha costretto l’esecutivo a una clamorosa marcia indietro, con figuraccia acclusa.
Di quelle misure prettamente ideologiche restano: la cancellazione di tutti gli obblighi e di tutte le cautele sulla pandemia; la sostanziale abolizione del reddito di cittadinanza (che però con sei milioni di poveri accertati dovrà per forza di cose essere sostituito da provvedimenti analoghi); la rottamazione delle cartelle esattoriali fino a mille euro per il periodo 2000-2015 (l’ennesimo condono per chi non paga le tasse); l’innalzamento del tetto del contante da duemila a cinquemila euro (altro incentivo all’evasione); la riattivazione della società in liquidazione per il ponte sullo Stretto (tributo ai venditori di sogni e di fumo).
Per il resto la manovra appare in assoluta continuità con le politiche del governo Draghi e in gran parte prigioniera della situazione in cui ci siamo cacciati con la guerra Russia-Ucraina. Dei 35 miliardi disponibili, 24 sono destinati a contenere i rincari delle bollette e dell’energia per le imprese e le famiglie. Un’altra quota importante andrà a finanziare il riarmo.
Il poco che resta è comunque di chiara impronta conservatrice e di destra, finalizzato ad accontentare quell’elettorato più che ad affrontare i problemi del paese. A cominciare da lavoro, istruzione e welfare. L’intervento sugli stipendi che solo in Italia calano invece di salire, è un pannicello caldo: un mini cuneo-fiscale del 3% che varrà solo per i redditi sotto i 25mila euro. Per la sanità è previsto per il 2023 un incremento di appena 2,2 miliardi, di cui 1,4 saranno destinati al rincaro energia e gli altri sono già mangiati dall’inflazione. Per la scuola, infine, il governo mette in campo un piano di aggregazioni, fusioni e soppressione di plessi per rendere quelli rimanenti più efficienti e al passo col calo demografico. Ma che in sostanza appare un dimensionamento destinato, secondo le prime stime, alla perdita di almeno 700 istituti. Non c’è da stare allegri, mi pare.
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