Migranti, quel girone dantesco: i Cpr peggio delle prigioni
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Migranti, quel girone dantesco: i Cpr peggio delle prigioni

Assomigliano a un girone dell’inferno dantesco. Peggio delle prigioni.  Sono i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) .

Migranti, quel girone dantesco: i Cpr peggio delle prigioni
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

22 Aprile 2023 - 14.40


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Assomigliano a un girone dell’inferno dantesco. Peggio delle prigioni.  Sono i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) .

Di che si tratta lo chiarisce, con la consueta cura documentale, Openpolis.

Girone infernale

I Cpr, spiega Openpolis un dettagliato report, “sono strutture detentive in cui vengono trattenuti i migranti sottoposti a un ordine di espulsione, in attesa di essere rimpatriati. Si tratta di luoghi che, a differenza delle prigioni, non avviano alcun percorso di reinserimento. Di fatto il migrante detenuto al termine della sua permanenza è irregolare quanto lo era prima. Inoltre, a causa dell’inefficace politica dei rimpatri spesso queste persone rimangono irregolarmente sul territorio, costrette all’illegalità e alla marginalizzazione. Il che genera un circolo vizioso. A questo si aggiunge il fatto che, sebbene i tempi di permanenza dei Cpr debbano in teoria essere brevi, nella realtà si estendono mediamente per più di un mese. 

All’interno dei Cpr sono detenuti quasi esclusivamente uomini e in oltre la metà dei casi persone di nazionalità tunisina. Negli ultimi giorni si parla molto della Tunisia per le dichiarazioni del presidente Kais Saied sui migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana e per la grave crisi socio-economica e politica che il paese sta attraversando.[…]. 

A oggi l’Italia considera la Tunisia un luogo sicuro e ha stretto con il suo governo numerosi accordi di rimpatrio. Ma in realtà la situazione venutasi a creare in questi mesi nel paese preoccupa numerose organizzazioni e reti della società civile, di ricerca e soccorso in mare e di solidarietà verso i migranti, tanto che oltre 70 organizzazioni hanno diffuso recentemente un appello, affinché le autorità europee revochino gli accordi con lo stato tunisino.

La dichiarazione dei 70

Alla luce dell’attuale trasformazione autoritaria dello Stato tunisino e dell’estrema violenza e persecuzione della popolazione nera, delle persone in movimento, degli oppositori politici e degli attori della società civile, noi, le organizzazioni firmatarie, rilasciamo questa dichiarazione per ricordare che la Tunisia non è né un paese di origine sicuro né un paese terzo sicuro e pertanto non può essere considerato un luogo sicuro di sbarco (Place of Safety, Pos) per le persone soccorse in mare. Esortiamo le autorità dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri a revocare i loro accordi con le autorità tunisine, volti al controllo delle migrazioni, ed esprimiamo la nostra solidarietà alle persone coinvolte.

Attacchi razzisti contro le persone di colore e repressione della società civile tunisina

Negli ultimi mesi si è intensificata la repressione contro gli oppositori politici, la società civile e le minoranze in Tunisia. Diverse organizzazioni tunisine e internazionali per la tutela dei diritti umani hanno espresso preoccupazione per “l’indebolimento dell’indipendenza della magistratura, gli arresti di critici e oppositori politici, i processi militari contro i civili, la continua repressione della libertà di espressione e le minacce contro la società civile”.

Parallelamente, catalizzato dal discorso razzista e discriminatorio contro i migranti provenienti dall’Africa subsahariana pronunciato dal presidente tunisino Kais Saied il 21 febbraio, il razzismo contro le persone nere, già esistente in Tunisia, si è intensificato portando a un peggioramento della situazione soprattutto per coloro che provengono dai Paesi dell’Africa centrale e occidentale4. Un gran numero di persone della diaspora africana residenti a Sfax, Sousse e nella capitale Tunisi ha subito atti di violenza, trovandosi senza alloggio, senza cibo e privati del diritto alla salute e al trasporto pubblico5. Gli africani neri non subiscono solo i pogrom da parte di gruppi di persone armate, ma anche forme di violenza istituzionale. Vengono schedati per motivi razziali, arrestati e detenuti arbitrariamente dalle forze di sicurezza. Alcuni sono stati oggetto di sparizioni forzate6. Per quasi un mese, circa 250 persone rimaste senza casa, tra cui alcuni bambini, hanno organizzato un sit-in davanti all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Iom) e all’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), chiedendo la loro immediata evacuazione in quanto in pericolo di vita. L’11 Aprile 2023, la protesta è stata sgomberata violentemente dalle forze di sicurezza, che hanno attaccato la folla con gas lacrimogeni per disperdere le persone, causando gravi lesioni. Circa 80 persone sono state arrestate. Tra questi, alcuni hanno riferito di aver subito torture e maltrattamenti.

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Questi sviluppi si verificano in un momento in cui la situazione socio-economica della Tunisia peggiora continuamente: il tasso di disoccupazione è del 15% e il tasso di inflazione del 10%. Il Paese manca di beni di prima necessità e, a causa della siccità, l’uso dell’acqua è limitato.

La Tunisia non è un luogo sicuro di sbarco!

Molti elementi erano già sufficienti per contestare la sicurezza della Tunisia per i suoi stessi cittadini, affermando che non è un Paese di origine sicuro9. Ciò nonostante, le espulsioni da parte dell’Italia dei cittadini tunisini che non hanno accesso alla protezione internazionale è in aumento. Dopo gli ultimi sviluppi, appare ancora più urgente affermare che la situazione è estremamente grave e pericolosa per le persone nere e straniere, tanto che anche la sicurezza della Tunisia come Paese terzo appare profondamente compromessa.

Questo insieme di fattori mette le persone migranti nere e le voci di opposizione in una posizione di vulnerabilità. Non essendo al sicuro in Tunisia, le persone migranti dell’Africa subsahariana cercano di uscire da un Paese che è sempre più pericoloso per loro. Di conseguenza, non dovrebbe essere permesso lo sbarco in Tunisia delle persone intercettate in mare, durante il tentativo di fuggire dal Paese. Secondo la Convenzione Sar (Search And Rescue), un soccorso è definito come “una operazione volta a soccorrere le persone in pericolo, provvedere alle loro prime necessità mediche o di altro tipo e condurle presso un luogo sicuro di sbarco. Nella risoluzione Msc 167(78) dell’Organizzazione Marittima Internazionale, un luogo sicuro di sbarco è ulteriormente definito come “un luogo in cui la sicurezza e la vita dei sopravvissuti non è più minacciata e in cui le loro necessità fondamentali (come cibo, riparo e necessità mediche) possono essere soddisfatte”.

La Tunisia non ha un sistema nazionale di asilo, e le persone soccorse in mare, tunisine e non, sono altamente esposte al rischio di subire violazioni dei diritti umani, detenzione e respingimenti forzati.

Lo sbarco in Tunisia dei naufraghi e delle persone intercettate in mare viola il diritto internazionale in materia di diritti umani e il diritto del mare.

Fermare la complicità dell’Europa nelle morti alle frontiere

Per oltre un decennio, l’UE e i suoi Stati membri hanno sostenuto politicamente, finanziato ed equipaggiato lo Stato tunisino affinché sorvegliasse i propri confini e contenesse la migrazione verso l’Europa. L’obiettivo è chiaro: impedire l’arrivo dei migranti in Europa, ad ogni costo.

Ciò si realizza attraverso diversi accordi finalizzati alla “gestione congiunta dei fenomeni migratori”, alla sorveglianza delle frontiere e al rimpatrio dei cittadini tunisini. Tra il 2016 e il 2020, sono stati stanziati per la Tunisia oltre 37 milioni di euro attraverso il Fondo fiduciario dell’UE per l’Africa, per favorire la gestione dei flussi migratori e delle frontiere”. Altri milioni di euro sono in arrivo. Inoltre, l’UE supporta la Tunisia attraverso “l’addestramento delle forze di polizia, la fornitura di attrezzature per la raccolta e la gestione dei dati, il supporto tecnico, l’equipaggiamento e la manutenzione delle imbarcazioni per il pattugliamento delle coste e altri strumenti per il tracciamento e il monitoraggio dei movimenti“. Purtroppo, nessun cambiamento nelle politiche europee è all’orizzonte. Proprio nel novembre 2022, nel suo recente Piano d’azione per il Mediterraneo centrale, la Commissione europea ha menzionato il suo obiettivo di “rafforzare le capacità della Tunisia […] di prevenire le partenze irregolari [e] sostenere una gestione più efficace delle frontiere e della migrazione“.

In questo modo, l’UE supporta anche la Guardia costiera tunisina, un attore le cui violazioni dei diritti umani contro le persone in movimento sono ben documentate. Negli ultimi anni, il numero di intercettazioni e di respingimenti da parte della Guardia costiera tunisina verso la Tunisia è aumentato enormemente. Solo nel primo trimestre del 2023, a 14.963 persone è stato impedito di lasciare la Tunisia via mare e sono state violentemente riportate indietro contro la loro volontà per conto dell’UE. Già nel dicembre 2022, più di cinquanta associazioni avevano denunciato la violenza della Guardia Costiera tunisina: “Aggressioni verso le persone con bastoni, spari di colpi in aria o in direzione del motore, attacchi con coltelli, manovre pericolose per tentare di affondare le imbarcazioni, richieste denaro in cambio del soccorso….Questi attacchi si sono intensificati negli ultimi mesi, prendendo di mira sia persone migranti tunisine che non tunisine. Inoltre, è stato recentemente documentato come la Guardia costiera tunisina sottragga i motori alle imbarcazioni che tentano di fuggire dal Paese, lasciando le persone a bordo alla deriva, provocandone la morte.

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Le organizzazioni firmatarie ricordano che la Tunisia non è un Paese di origine sicuro per i cittadini tunisini. Inoltre, non può considerarsi un luogo sicuro di sbarco per le persone provenienti dall’Africa subsahariana, né per i cittadini tunisini e né per gli altri stranieri in fuga dal Paese. Chiediamo alle autorità dell’Unione Europea e ai suoi Stati membri di interrompere il supporto tecnico e finanziario nei confronti della Guardia costiera tunisina, nonché la cooperazione volta al controllo delle migrazioni dalla Tunisia, garantendo canali di movimento sicuri per tutte e tutti”.

Il securitarismo al governo

Torniamo al Rapporto di Openpolis: “Parallelamente in Italia sono aumentati gli investimenti nel sistema di detenzione dei migranti considerati irregolari. E l’approccio all’accoglienza è diventato gradualmente più securitario. Tutto questo ha pesanti conseguenze sia sui migranti che partono dalla Tunisia, costretti in condizioni di crescente precarietà, che sui tunisini stessi, che vengono automaticamente discriminati e privati del loro diritto di richiedere l’asilo. Quella tunisina è infatti la nazionalità più rappresentata all’interno dei centri detentivi per migranti in Italia, i centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), e la più esposta ai rimpatri forzati. I Cpr – torna a sottolineare il report – sono centri di detenzione amministrativa dove vengono trattenuti i migranti sottoposti a un ordine di espulsione, in attesa di essere rimpatriati. Si tratta di vere e proprie prigioni, dove sono rinchiuse persone che di fatto non hanno commesso alcun crimine. 

Al termine della permanenza, i detenuti sono ancora irregolari.

Questi luoghi non hanno peraltro alcuna utilità visto che, a differenza di altre strutture detentive, non avviano percorsi finalizzati all’inclusione della persona. La quale, giunta al termine della sua detenzione, è irregolare quanto lo era in precedenza. In questo senso i Cpr generano un circolo vizioso che finisce per creare ancora più irregolarità, vista anche l’inefficace politica dei rimpatri. Con effetti deleteri sui migranti stessi, che vengono esclusi e relegati alla marginalità, ma anche sulle comunità, che deve gestire ulteriori ed evitabili conflitti e tensioni sociali.

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Come i Cpr incidono sull’irregolarità.

La detenzione amministrativa assume nella prassi prevalentemente i tratti di un meccanismo di marginalità sociale, confino e sottrazione temporanea allo sguardo della collettività di persone che le Autorità non intendono includere, ma che al tempo stesso non riescono nemmeno ad allontanare.

Secondo i dati presentati dal garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, nel 2021 sono transitate nei centri di permanenza per il rimpatrio 5.145 persone. Ovvero il 17,5% in più rispetto al 2020, quando erano state 4.387. Appena 5 di questi erano donne e oltre la metà erano di nazionalità tunisina. 

In teoria la permanenza nei centri dovrebbe avere una durata breve, sufficiente solo a identificare la persona e predisporre il suo rimpatrio. Nella realtà però spesso i detenuti si ritrovano in un limbo che può durare molti giorni. Mediamente, il loro soggiorno supera abbondantemente il mese.

36,3 giorni il tempo di permanenza nei Cpr, in media, nel 2021, secondo il garante delle libertà.

Chi sono le persone trattenute nei Cpr

Nei centri di permanenza per il rimpatrio sono state trattenute, nel 2021, persone provenienti da 71 paesi. Tuttavia le nazionalità più rappresentate sono quelle nord-africane e in particolare quella tunisina. Su circa 5mila detenuti, infatti, quasi 3mila provengono dalla Tunisia.

54,5% dei detenuti nei Cpr sono di nazionalità tunisina (2021).

I primi paesi di origine dei migranti trattenuti nei centri di permanenza per il rimpatrio sono tutti nord-africani. Prima tra tutti la Tunisia (quasi 3mila persone), seguita dall’Egitto (517) e dal Marocco (420). Insieme, proviene dal nord-Africa il 75% dei detenuti.

Stando ai dati del garante nazionale, nel 2021 il 48,9% dei detenuti è stato effettivamente rimpatriato. Per quanto riguarda gli altri, nel 31,5% dei casi l’autorità giudiziaria non ha convalidato il loro trattenimento. Due persone sono decedute.

L’Italia considera ancora la Tunisia un paese sicuro

Come accennato, i tunisini sono di gran lunga la nazionalità più rappresentata nei Cpr e sono molto frequentemente rimpatriati (nel 64,8% dei casi). Inoltre, secondo i dati del garante, 79 dei 103 voli charter di rimpatrio forzato sono partiti per la Tunisia: parliamo di 1.823 persone su 2.172, pari all’84% del totale. Costituiscono anche il 33% delle persone registrate negli hotspot – i luoghi in cui si definisce se un migrante può richiedere l’asilo o se è un “migrante economico” e quindi va rimpatriato quanto prima.

Dal 2019 la Tunisia è nella lista dei 13 paesi sicuri.

Sono dati molto eloquenti, che illustrano quello che l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha definito il “mito della sicurezza in Tunisia”. Nell’ottobre 2019, con un decreto interministeriale, l’Italia ha inserito la Tunisia in una lista di 13 paesi d’origine sicuri, con criteri che secondo Asgi sono incerti e poco trasparenti. L’incongruenza oggi risulta ancora più visibile, vista la crisi politica e socio-economica in corso e l’approccio escludente nei confronti dei migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana. 

Il fatto che l’Italia consideri la Tunisia un luogo sicuro ha conseguenze su come le domande di asilo dei tunisini vengono analizzate. La procedura, come rileva Asgi, ne risulta accelerata, con tempi più ristretti e minori garanzie. Inoltre, il diritto di asilo non è propriamente esistente in Tunisia se non in una forma molto stringente (e può essere valutato e garantito solo dall’Unhcr). Pertanto – conclude il Rapporto –  i sempre più numerosi migranti che si trovano nel paese nord-africano si trovano in situazioni particolarmente precarie”.

Dopo quello turco, ecco il “modello tunisino”. Finanziato dall’Europa, sostenuto dall’Italia. La vergogna continua. 

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