Caso Regeni: ora presidente Meloni chi placherà l'ira del funesto al-Sisi?
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Caso Regeni: ora presidente Meloni chi placherà l'ira del funesto al-Sisi?

Chi dirà al presidentissimo Abdel Fattah al-Sisi che in Italia esiste ancora lo Stato di diritto e dei giudici che non sacrificano la ricerca di verità e giustizia sull’altare di una sciagurata “diplomazia degli affari”

Caso Regeni: ora presidente Meloni chi placherà l'ira del funesto al-Sisi?
Al Sisi e Giorgia Meloni
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

28 Settembre 2023 - 15.20


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Ed ora, presidente Meloni, ministro Tajani, e pure lei ministro Piantedosi, chi placherà l’ira funesta del vostro amico egiziano? Chi dirà al presidentissimo Abdel Fattah al-Sisi che in Italia esiste ancora lo Stato di diritto e dei giudici che non sacrificano la ricerca di verità e giustizia sull’altare di una sciagurata “diplomazia degli affari” e di una criminale visione securista della lotta all’immigrazione illegale che ha fatto di dittatori come al-Sisi, o il suo eguale tunisino Kais Saied, indispensabili punti di riferimento per i loro sponsor di Roma?

Ci sono giudici a Roma

Chi glielo dice al “faraone” d’Egitto, a capo di uno spiegato Stato di polizia, che gli 007 egiziani possono essere processati per il sequestro, le torture e la morte di Giulio Regeni, il 28enne dottorando italiano dell’Università di Cambridge rapito a Il Cairo il 25 gennaio 2016, giorno del quinto anniversario delle proteste di piazza Tahrir, e ritrovato senza vita il 3 febbraio successivo nelle vicinanze di una prigione dei servizi segreti egiziani ad Alessandria. A stabilirlo è stata la Corte costituzionale che ieri, martedì 26 settembre, ha dichiarato “anticostituzionale” la norma che ha permesso, fino a questo momento, ai quattro imputati egiziani di sottrarsi al processo non comunicando i loro indirizzi così da rendere impossibile la notifica degli atti e il relativo inizio del processo secondo la Corte di Assise di Roma e la Cassazione. La Consulta ha esaminato la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma in relazione alla celebrazione del processo per il sequestro e l’omicidio di Giulio Regeni e “ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice proceda in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione di New York contro la tortura, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa”.

Contro questa decisione si sono battuti i genitori di Giulio, Paola e Claudio Regeni, assistiti dall’avvocato Alessandra Ballerini e con l’appoggio della procura di Roma. Da due anni è infatti fermo il giudizio contro quattro appartenenti alle forze di sicurezza della Repubblica araba d’Egitto: il generale Sabir Tariq, i colonnelli Mohamed Athar Kamel e Helmy Uhsam, il maggiore Magdi Ibrahim Sharif accusati di aver rapito Regeni a Il Cairo, ritrovato poi cadavere lungo la strada per Alessandria il 3 febbraio successivo. Il maggiore Sharif è accusato anche delle percorse e dell’omicidio di Giulio. In sostanza la Consulta sostiene che nei casi di tortura, quando lo Stato straniero non collabora, il processo si può tenere senza le notifiche.

Giulio Regeni fu sequestrato al Cairo il 25 gennaio 2016. Da allora è sempre stato molto complicato ottenere informazioni su quello che realmente accadde, sia per le autorità italiane sia per la famiglia di Regeni. Il suo corpo venne trovato una settimana dopo in una strada alla periferia della capitale egiziana, pieno di abrasioni e contusioni e con varie fratture, anche a tutte le dita delle mani e dei piedi. Aveva inoltre molti segni di bruciature di sigarette e di coltellate, anche sotto la pianta dei piedi.

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Le autorità egiziane parlarono prima di un incidente stradale, poi di un omicidio avvenuto nel corso di una relazione omosessuale e infine di un regolamento di conti tra trafficanti di droga. Il 24 marzo 2016, durante una sparatoria, la polizia egiziana uccise quattro uomini che secondo la polizia stessa erano gli assassini di Regeni, appartenenti a una banda specializzata nel rapimento di stranieri. Sul luogo venne trovata anche una borsa con dentro oggetti di proprietà di Regeni. Tuttavia in seguito fu la stessa procura del Cairo a escludere che si trattasse degli assassini del ricercatore: dai tabulati telefonici risultava che uno di loro fosse a 100 chilometri dal Cairo nei giorni della scomparsa di Regeni.

Secondo la procura di Roma il depistaggio della borsa e della sparatoria fu inscenato dai servizi segreti egiziani. E sempre secondo la procura Regeni, che si trovava in Egitto per svolgere una ricerca sui sindacati di base egiziani per conto dell’Università di Cambridge, venne torturato e ucciso perché ritenuto una spia. A denunciarlo sarebbe stato Mohamed Abdallah, leader del sindacato degli ambulanti, che Regeni aveva incontrato per una ricerca. Abdallah avrebbe denunciato il ricercatore italiano alla polizia di Giza, una città a circa 20 chilometri dal Cairo, il 6 gennaio, seguendolo poi fino al 22 gennaio, tre giorni prima della scomparsa, e comunicando alla polizia tutti i movimenti del ricercatore.

Verità e giustizia

Soddisfatto il procuratore di Roma, Francesco Lo Voi che esprime «grande soddisfazione, sicuramente. per la possibilità di celebrare un processo secondo le nostre norme costituzionali che restano il faro del nostro lavoro. Per il resto aspettiamo le motivazioni per vedere come procedere sperando di trovare la parte civile al nostro fianco nelle fasi successive». ​

«Avevamo ragione noi», afferma la famiglia Regeni, insieme all’avvocato Alessandra Ballerini: «Ripugnava al senso comune di giustizia che il processo per il sequestro le torture e l’uccisione di Giulio non potesse essere celebrato a causa dell’ostruzionismo della dittatura di al-Sisi per conto della quale i quattro imputati hanno commesso questi terribili delitti. In effetti come ha scritto il Gup Ranazzi nella sua ordinanza “non esiste processo più ingiusto di quello che non si può instaurare per volontà di un’autorità di governo”. Abbiamo dovuto resistere contro questa volontà dittatoriale per sette anni e mezzo confidando comunque sempre nei principi costituzionali della nostra democrazia. Ringraziamo tutte le persone che hanno sostenuto e sosterranno il nostro percorso verso verità e giustizia: la procura di Roma ed in particolare il dottor Colaiocco, la scorta mediatica, e tutto il “popolo giallo”».​

Per Debora Serracchiani, responsabile giustizia del Pd, «la sentenza della Consulta permette di continuare a credere che verità e giustizia sono un obiettivo al quale non dobbiamo mai smettere di puntare». In attesa delle motivazioni, «prendiamo atto con soddisfazione che il processo può essere celebrato e gli imputati chiamati a rispondere delle accuse. Uno Stato di diritto difende i suoi cittadini secondo le leggi e non li abbandona all’arbitrio di poteri oscuri». 

«Il governo italiano ora si costituisca parte civile», dice Angelo Bonelli, co-portavoce nazionale di Europa Verde: «Chiedo che la Presidente Meloni, a nome del Governo, si costituisca parte civile contro coloro che hanno brutalmente tolto la vita a un giovane ricercatore italiano, in un atto barbaro che ha avuto l’evidente copertura del Governo egiziano. Presenteremo un ordine del giorno alla Camera per chiedere formalmente che l’Italia si costituisca parte civile contro gli assassini e il governo egiziano, assicurando così che la nostra nazione prenda una posizione ferma e decisa in questo grave fatto di cronaca internazionale. Il governo egiziano, con il suo comportamento, ha dimostrato un disprezzo inaccettabile per la giustizia e i diritti umani: un fatto inaudito».​

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Plaude alla decisione il segretario nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni: «Ora si vada al processo e si condannino i responsabili dell’assassinio del nostro giovane connazionale. Dopo troppi anni di silenzi e di depistaggi da parte del governo egiziano, la decisione della Corte Costituzionale del nostro Paese restituisce un po’ di fiducia a chi crede nella giustizia e vuole la verità nell’omicidio di Giulio Regeni». Per il parlamentare dell’Alleanza Verdi Sinistra «i giudici della Consulta si dimostrano più coraggiosi e dignitosi di tanti politici che dai governi di questi anni, pur di far fare affari, non hanno mosso un dito per non disturbare il regime di Al Sisi»

Uno spiraglio di speranza

Annota su La Stampa Luigi Manconi: ““Infine si apre uno spiraglio, sottile ma determinante, nella tormentatissima vicenda dell’accertamento della verità sull’assassinio di Giulio Regeni. Grazie a una sentenza della Corte Costituzionale ora è possibile che la magistratura italiana processi gli imputati per il sequestro, la tortura e l’omicidio del nostro connazionale. 

La Consulta ha dichiarato infatti «l’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice proceda in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione di New York contro la tortura». E ciò perché i quattro imputati, tutti appartenenti alla National security agency (Nsa), non hanno ricevuto la citazione e la convocazione a processo – è quanto prevede il nostro codice di procedura penale – a causa della mancata collaborazione dello Stato egiziano, pur essendo a conoscenza del procedimento a loro carico. 

Si dovranno leggere le motivazioni della sentenza, ma si intuisce che essa si debba alla eccezionale gravità dei capi di accusa, ovvero quegli «atti di tortura» che hanno martoriato il corpo del giovane ricercatore e ne hanno determinato la morte. Ora si può andare a processo secondo le procedure del nostro sistema di giustizia. È un risultato importantissimo dovuto in particolare a due soggetti: la famiglia di Regeni e il procuratore aggiunto di Roma Sergio Colaiocco. 

La prima, con intelligenza e tenacia e con una straordinaria misura di equilibrio, si batte fin da quei giorni d’inverno del 2016 per tenere viva l’attenzione su quella tragedia, per interpellare tutti gli attori in qualche modo coinvolti e per accedere a tutte le sedi istituzionali dove sia possibile sollecitare una iniziativa politica e mobilitare energie e risorse pubbliche. Troppo spesso in piena solitudine. Una grande solidarietà popolare, ma l’assenza pressoché totale delle istituzioni di governo. 

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L’ultimo atto di vera pressione nei confronti delle autorità egiziane consistette nel richiamo in Italia del nostro ambasciatore al Cairo l’8 aprile del 2016, ma anche quella si rivelò una procedura solo formale e il debole segno di una controversia sostanzialmente innocua. Così che, alla vigilia del Ferragosto dell’anno successivo, il provvedimento fu revocato e si ripristinò l’ordinaria normalità diplomatica tra Italia ed Egitto. 

Dal giorno del rapimento di Regeni a oggi si sono succeduti sei Governi. E al di là delle petizioni di principio hanno prevalso in genere le dichiarazioni di “amicizia” verso l’Egitto; e una sequenza turbinosa di incontri di presidenti del Consiglio e ministri con il despota egiziano, tale da far immaginare una inquietante promiscuità. Un esempio: nel corso del solo agosto del 2018, furono ben quattro gli incontri tra i più importanti rappresentanti del Governo italiano e Abdel Fattah al-Sisi. 

La spiegazione che in genere si dà è tutt’altro che immotivata e tuttavia troppo semplice per risultare esauriente. Che il ruolo dell’Eni nella politica estera e italiana sia particolarmente rilevante è indubbio: ma nemmeno questo è sufficiente a spiegare la pusillanimità dei nostri esecutivi. Il perseguimento degli interessi economico-finanziari dell’Italia in quella regione del mondo non è sufficiente a dare conto di tanta subalternità. 

La politica e la diplomazia italiane hanno rivelato un disastroso complesso di inferiorità nei confronti di un regime autocratico e una scarsissima considerazione del proprio ruolo di nazione sovrana e indipendente. 

In sette anni e mezzo sono stato testimone diretto dell’indisponibilità delle autorità italiane a incidere sulle relazioni bilaterali con l’Egitto, a esercitare un efficace pressione, a coinvolgere l’Europa in una interlocuzione decisa e incalzante con quel regime, a far sentire il peso della propria funzione nell’area del Mediterraneo.

È come se l’Italia avesse archiviato il “dossier Regeni” già il 3 febbraio del 2016, giorno del ritrovamento del suo cadavere, e avesse atteso che scivolasse nell’oblio e nell’oscurità della smemoratezza collettiva. Se così non è stato si deve, come si è detto, alla saggezza e alla pervicacia dei genitori di Giulio e all’attività del procuratore Colaiocco, e della collaborazione di polizia e carabinieri, in una indagine che ha portato a risultati assai significativi, nonostante riguardasse reati commessi in un Paese straniero. E nonostante il vero e proprio ostruzionismo messo in atto dal regime egiziano. 

Ora il processo può andare avanti secondo le regole del nostro Stato di diritto, che conferma così la sua superiorità rispetto ai regimi dittatoriali, perché come ha scritto il Giudice dell’udienza preliminare Roberto Ranazzi «non esiste processo più ingiusto di quello che non si può instaurare per volontà di un’autorità di governo». E questo rappresenta un motivo di sollievo, anche perché la decisione della Consulta – va ribadito – parte dalla considerazione dell’assoluta irreparabilità dei reati contestati. La pratica della tortura costituisce il più efferato oltraggio alla dignità umana, vi si ritrova «tutto il male del mondo» (come disse Paola Deffendi Regeni) ed esige la massima intransigenza. Dal momento che il ricorso a essa non è un retaggio dei secoli bui né un prodotto esotico: accade che anche le cronache italiane ne possano riportare gli orrori”.

Verità e giustizia per Giulio Regeni. La battaglia continua.

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