L’Europa, l’Italia, si stanno inesorabilmente avvicinando ad un punto di svolta. Un punto di rottura, uno di quei lividi momenti della storia in cui avviene lo scontro all’ultimo sangue tra una concezione democratica del vivere civile ed una fortemente autoritaria e regressiva. I segnali sono numerosi, inequivocabili, e ignorarli, non saperli unire in un quadro coerente potrebbe costarci molto caro.
Da anni Paesi di sana e robusta costituzione democratica presentano minacciosi scricchiolii nelle loro impalcature repubblicane, a cominciare da quello che si picca di esportare le idee democratiche nel mondo, gli Stati Uniti d’America. Anche lì da anni gira un virus micidiale, per la vita democratica pericoloso quanto il Covid-19 lo è per la salute degli umani: la tirannide di un uomo forte al comando, che apertamente disprezza e dileggia le norme e i principi ispiratori che regolano il normale gioco democratico. Un uomo con alle spalle un ben deciso potere economico e un imponente apparato di media che gli pavesano la strada, un uomo per il quale il Parlamento è un inciampo da superare, gli ideali di solidarietà, uguaglianza e libertà sono irritanti intralci, la cultura un concetto privo di significato. Un uomo per il quale il razzismo, il dio della produttività, l’ignoranza e la sperequazione sociale sono il dogma.
In questo momento storico, nel mondo i leader politici come Trump sono legione. Troppi anche solo per ricordarli. La più grande potenza del Sud America, il Brasile, ha avuto il suo. Bolsonaro, se possibile, è un Trump ancora più truce e fascista, e oltretutto governa un Paese privo della saldezza democratica degli USA.
In quella che ormai è considerata la maggiore potenza economica e probabilmente militare del mondo, la Cina, vige una tirannia imbellettata da Repubblica popolare: lì non è tanto questione di nomi, quanto di quadri. E l’Asia pullula di stati governati da tirannidi. Come l’Africa.
Sì, direte, ma noi siamo in Europa. Viviamo nella culla della civiltà democratica. Già, è proprio questo il punto: fino a quando?
Putin ha operato l’ennesima violenza alla carta costituzionale russa, assicurandosi il potere sino al 2032. Quando, se ci arriva, avrà ottanta anni. Ed è in sella, nella sostanza, dal 1999: con lui la Russia ha vissuto un graduale, inesorabile processo di arretramento democratico, con tanto di epurazioni, incarcerazioni (se non peggio) di oppositori politici, repressione della libertà di stampa e scomparsa di libere elezioni credibili.
Poi c’è Erdogan (la Turchia è Europa, non prendiamoci per i fondelli), che è riuscito nella straordinaria impresa di distruggere uno stato laico che durava da cent’anni, soppiantando un’intera classe dirigente e facendo vertiginosamente retrocedere in un orrido medioevo un Paese da sempre in lotta per la modernizzazione. Con il silente, ignavo silenzio assenso della democratica Europa.
In molti stati centrali e orientali del vecchio continente è al potere “l’uomo forte”: dei Trump e dei Bolsonaro in miniatura, efferati ducetti che nei loro Paesi dalle friabili democrazie spadroneggiano in spregio alle Costituzioni vigenti. Su tutti, Orban, in Ungheria.
Con tipica mossa tirannica, il presidente ungherese ha usato il pretesto della pandemia per assicurarsi poteri eccezionali: ha chiuso le camere, ha bloccato le elezioni, a tempo indeterminato. Potrà governare a botta di decreti, sospendere o cambiare leggi in vigore: in pratica, pieni poteri senza limiti di tempo. Sarà lui a decidere quando tornare alla democrazia. Se mai lo deciderà.
È solo l’ultimo, decisivo passo verso la cancellazione dei diritti fondamentali di uno stato democratico. Per il leader dell’opposizione, il socialista Bertalan Toth, il futuro è chiaro: “Inizia così la dittatura senza maschera del primo ministro”. Persino il conservatore Jobbik, presidente del partito nazionalista, è d’accordo: “Siamo di fronte a un colpo di Stato”.
E cosa dicono a Bruxelles, i custodi dei valori dell’Europa unita? Prendono tempo. Poi, incalzati, cercano di tranquillizzarci: “La Commissione sta valutando le misure di emergenza adottate dagli Stati membri in relazione ai diritti fondamentali”, ha dichiarato il commissario alla Giustizia Didier Reynders.
E in Italia come abbiamo reagito? I partiti di governo, compatti, condannano e stigmatizzano questo decisivo passo verso la dittatura. Ma c’è anche chi difende Orban. Naturalmente.
“Saluto con rispetto la libera scelta del parlamento ungherese, eletto democraticamente dai cittadini”, ha twittato l’ineffabile Salvini. “Buon lavoro all’amico Victor Orban e buona fortuna a tutto il popolo di Ungheria in questi momenti difficili per tutti”. “L’amico Orban”: più chiaro di così. Dello stesso tenore il pensiero di Giorgia Meloni, che, grottescamente, parla di “deriva autoritaria” non in Ungheria, bensì qui in Italia, ignorando o fingendo di ignorare che da noi i decreti del presidente del Consiglio passano dal Parlamento, e soprattutto che lo stato d’emergenza ha una durata prestabilita ed è stato votato dal Parlamento (che tra l’altro, a differenza di quanto previsto in Ungheria, non può essere bloccato da Giuseppe Conte). Ignoranza, sciacallaggio politico? Vallo a sapere.
Quello che si sa, e che dovrebbe allarmare tutti coloro che hanno a cuore la democrazia, è che quanto è successo in Ungheria qui da noi è già accaduto. Nel 1922 Mussolini andò al governo democraticamente. Poi si divorò la fragile democrazia liberale, introdusse le leggi fascistissime e instaurò una feroce dittatura per i cui danni fisici e morali ancora ci lecchiamo le ferite. Il suo degno compare e suo estimatore, Hitler, fu eletto cancelliere democraticamente, e sappiamo com’è andata. Altre epoche? No, lo stesso discorso vale per Erdogan e Putin, eletti democraticamente.
In realtà, la storia insegna che le dittature nascono spesso dalle democrazie, soprattutto da quelle instabili, prostrate da profonde crisi economiche e da uno stato sociale esplosivo. Situazione che caratterizza il periodo storico che stiamo vivendo.
Ora come allora, sciacalli e avventurieri non mancano: tutt’altro, abbondano. Da settimane, da mesi, da anni questi piranha azzannano i laceri resti di una democrazia scerpata da poteri occulti sempre in agguato, sfruttando amoralmente ogni occasione. I segnali sono numerosi, inequivocabili. Non dobbiamo commettere l’errore di sottovalutarli, chiudendo gli occhi e crogiolandoci nelle presunte certezze della tenuta democratica del nostro sistema.
Il contesto internazionale congiura contro la democrazia: la tremenda crisi economica che si profila, di carattere mondiale, è il brodo di coltura perfetto per colpi di mano autoritari. Perfetto è il contesto nazionale, in un Paese dove gli scenari golpisti sono una drammatica costante. Non c’è bisogno di ricorrere ai putsch: avvengono con il consenso di masse disperate, affamate, confuse e facilmente manipolabili, credule verso gli “uomini forti” che promettono ordine, lavoro e disciplina.
Il punto di svolta si avvicina. Più che mai, è il momento di vigilare, vigilare, vigilare.