Un famoso generale e teorico militare di ieri, il prussiano Carl Von Clausewitz, diceva che “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”. Attualmente ce ne sono 59 in corso nel mondo, la maggior parte in Africa. Sei sono considerate ad alta intensità: Ucraina, Gaza, Afghanistan, Myanmar, Yemen, Etiopia. È la Terza guerra mondiale a pezzetti, come l’ha definita Papa Francesco. Che si combatte non solo con le armi in uno scenario dove l’America sta perdendo il suo ruolo di gendarme e guida del mondo libero, con le potenze mondiali emergenti del Brics (Russia, Cina, India, Brasile) che non accettano più di sottostare alla “dittatura” del capitalismo occidentale e del dollaro e vogliono essere loro le protagoniste di un nuovo ordine mondiale.
Guerre che proliferano nella notte della politica, dove le prove di forza prevalgono sull’arte della diplomazia facendo ballare il mondo intero sul Titanic della Guerra Grande tra Usa e Cina, tra Occidente e Oriente, e della possibile catastrofe nucleare. E quando la politica non c’è più le guerre rimangono, e spesso non si sa più come uscirne. Come succede in Ucraina e a Gaza.
Quel che sta accadendo in questi giorni sui due conflitti principali ha un che di Kafkiano. In Ucraina, a due anni e tre mesi dall’invasione russa, è ormai chiaro a tutti che Kiev non potrà mai ricacciare l’aggressore e vincere la guerra.
Visto il contesto geopolitico (la Nato che abbaia ai confini della Russia, la Crimea e parte del Donbass già russe), fin dall’inizio era sembrato evidente agli osservatori più attenti che l’unica conclusione di quella guerra per procura poteva e può essere solo un accordo frutto della trattativa tra Usa e Russia, con un onorevole compromesso per Kiev.
A meno da non essere così folli da pensare a una guerra Nato-Russia, quindi mettendo in conto l’Armageddon.
Per due anni, invece, da servi sciocchi della strategia Usa che mira a indebolire Putin per poter combattere meglio Xi Jinping, abbiamo detto che bisognava spezzare le reni alla Russia, mandato valangate di soldi e armi all’Ucraina, fatto di Zelensky il campione del mondo libero e democratico (la storia ci dirà quanto sia stata azzardato questo imprimatur).
E oggi che stiamo finendo i soldi, le armi e pure la fiducia molti sperano – senza però avere il coraggio di dirlo apertamente e senza fare niente di concreto perché avvenga – nell’iniziativa diplomatica, nella trattativa, che l’amico americano convinca in nemico Putin a un accordo ragionevole.
Salvo le anime belle come Von del Leyen e Meloni, che restano le ultras di Zelensky e della vittoria dell’Ucraina, e Macron che arriva addirittura a non escludere l’invio di truppe Nato a Kiev, cioè la Terza guerra mondiale. Ignorando le analisi con inviti alla tregua che arrivano dagli stessi generali di Kiev e dagli esperti militari Usa. Il numero due dell’Intelligence e della Difesa Ucraina, Vadym Skibitsky, ad esempio, che dice all’Economist: “Vincere la guerra è quasi impossibile e l’unico modo per porre fine al conflitto è il negoziato”.
O Charles Kupchan, professore di relazioni internazionali alla Georgetown University, editorialista del «New York Times ed ex consulente per la politica estera di Clinton e Obama, che scrive: “Lo stanziamento di nuovi aiuti non permetterà a Kiev di ribaltare le sorti del conflitto. Bisogna relazionarsi con la Russia che c’è, non con quella che vorremmo che ci fosse. Ed è la Russia di Putin. Serve quindi discutere con gli ucraini su come chiudere il conflitto“.
Lo stesso, per certi versi, sta accadendo a Gaza. Dopo il terribile attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre scorso e l’altrettanto terribile distruzione di Gaza da parte dell’esercito israeliano che in sei mesi ha provocato oltre trentamila morti civili (tre volte quelli dell’Ucraina, più della metà bambini e donne) e due milioni di sfollati che sopravvivono in condizioni disperate e senza via d’uscita, è stata finalmente raggiunta con la mediazione dei paesi arabi moderati una concreta ipotesi di accordo per il rilascio degli ostaggi e il contemporaneo cessate il fuoco.
Accordo che potrebbe anche riaprire la strada ai negoziati di pace sulla base del principio due popoli due stati. Hamas ha accettato, ma Israele ha subito gridato all’inganno e ha cominciato a bombardare Rafah, occupando con i carri armati il valico da cui entrano anche gli aiuti umanitari nella Striscia. La mossa sembra chiara: nessuna trattativa, avanti a distruggere il nemico, fino alla vittoria. Netanyahu con Hamas e i palestinesi come Zelensky con Putin e gli odiati russi. A dispetto della realtà e del buon senso. In barba al pressing asfissiante ma sterile degli Usa. È dura sconfiggere il potere che vive o sopravvive sulla guerra. Quando la guerra è la sua garanzia sulla vita.