Immaginate un laser al contrario. Un laser il cui raggio, invece di fondere il bersaglio, lo raffredda. Ebbene, questo incredibile dispositivo esiste. E ora un team di ricercatori guidato da Peter Pauzauskie, della University of Washington, a Seattle, è riuscito per la prima volta a dimostrare che è possibile utilizzarlo per rinfrescare un liquido.
La teoria dietro a questo risultato non è affatto nuova. Risale al 1929, quando in un articolo pubblicato su Zeitschrift für Physik il fisico Peter Pringsheim suggerì che la cosiddetta fotoluminescenza anti-Stokes – un effetto che si verifica in alcuni cristalli quando, sottoposti a eccitazione, i fotoni emessi hanno energia maggiore di quelli assorbiti – poteva ridurre la temperatura del materiale illuminato. Ma per passare alla pratica s’è dovuto attendere fino al 1995, quando nei laboratori di Los Alamos, sfruttando appunto la fotoluminescenza anti-Stokes, i ricercatori hanno iniziato a raffreddare alcuni materiali (per esempio, nanonastri di solfuro di cadmio) arrivando ad abbassarne la temperatura anche di 40 gradi rispetto a quella ambiente. Questo, però, solo nel vuoto. Almeno fino a oggi.
L’impresa di Pauzauskie e colleghi, descritta in uno studio in uscita questa settimana sui Proceedings of the National Academy of Sciences, è stata quella di replicare lo stesso processo in un ambiente liquido. Riuscendo a raffreddare di oltre 20 gradi alcuni cristalli di fluoro litio ittrio drogati con itterbio immersi nell’acqua – nella fattispecie, acqua pesante (D2O, due atomi di deuterio e uno di ossigeno) – irraggiandoli con un laser a infrarossi.
Ma come può un raggio laser raffreddare? Non dovrebbe avvenire il contrario? La domanda è più che legittima: «Di solito, i laser, le cose le scaldano, come ben sappiamo dai film di Star Wars. Questo è il primo esempio di raggio laser che potrà raffreddare liquidi come l’acqua in condizioni standard. Se fosse o meno possibile era davvero una domanda aperta», conferma Pauzauskie, «perché normalmente l’acqua, quando è illuminata, si scalda».
Intendiamoci, qui si parla di appena una manciata di nanocristalli. E una fra le difficoltà maggiori è stata misurarne la variazione di temperatura, operazione per la quale s’è reso necessario arrivare a registrare – utilizzando lo stesso raggio laser – il rallentamento del moto browniano dei singoli cristalli. Per raffreddare un insieme di particelle più cospicuo occorrerà un laser di potenza assai maggiore. Dunque è quantomeno prematuro fantasticare scenari apocalittici come quelli innescati dal ghiaccio-nove, la nanoparticella – immaginata da Kurt Vonnegut nell’omonimo romanzo – capace di surgelare l’intero pianeta. Ma il risultato ottenuto alla University of Washington segna comunque una tappa significativa nell’incessante sfida fra tecnologia ed entropia.
Quanto ai vantaggi offerti dalla refrigerazione laser rispetto alle altre tecnologie criogeniche, quello principale è senza dubbio la precisione, intesa in termini spaziali. Le applicazioni più promettenti sono infatti in ambito biologico: sarà per esempio possibile, sperano i ricercatori, arrivare a rallentare, se non addirittura a bloccare, l’attività di singole cellule o parti di esse. Notevoli le potenzialità che si aprono anche per quanto riguarda la costruzione di laser “normali” – quelli che bruciano, per intenderci – più potenti di quelli attuali: l’obiettivo, in questo caso, è quello di sfruttare la fotoluminescenza anti-Stokes per evitarne il surriscaldamento, scongiurando così il conseguente rischio di fusione. E siamo solo all’inizio: se pensiamo che, fino a oggi, pochi immaginavano fosse possibile usare un laser per raffreddare, è facile prevedere che le idee su cosa farne ora non tarderanno ad arrivare.