Gli psicologi spiegano la vita degli astronauti nello spazio
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Gli psicologi spiegano la vita degli astronauti nello spazio

I ricercatori vogliono comprendere meglio la reazione del cervello umano a missioni di lunga durata in ambienti estremi.

Gli psicologi spiegano la vita degli astronauti nello spazio
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20 Aprile 2016 - 19.27


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di Davide Coero Borga*

Pianeta Terra. Eccolo in tutto il suo splendore fotografato da 400 chilometri di altezza. La stessa quota cui orbita la Stazione Spaziale Internazionale, il nostro avamposto umano nello spazio. Il panorama di straordinaria bellezza restituisce emozioni anche a chi nello spazio non ci è mai stato fisicamente. Figuriamoci che cosa deve passare per la testa di un astronauta che galleggia lassù, in microgravità.

Domanda lecita. Tanto più se a farla è un gruppo di ricerca dell’Università della Pennsylvania, che firma lo studio appena pubblicato da Psychology of Consciousness.

Gli astronauti che hanno vissuto l’esperienza di guardare il pianeta Terra da grande distanza descrivono un sentimento di stupore e meraviglia, una condizione unica relativa allo straniamento indotto da una tale prospettiva estrema. In gergo tecnico si parla di overview effect e potrebbe avere importanti conseguenze psicologiche nell’ambito del volo spaziale, specie ora che stiamo preparando i nostri astronauti a missioni sempre più lunghe, con l’obiettivo di raggiungere nel breve tempo un asteroide o, perché no, Marte.

Il gruppo di ricerca composto da David Yaden, Johannes Eichstaedt e Jonathan Iwry, con il supporto dei colleghi della Thomas Jefferson University e dell’Università di Houston, sta lavorando proprio nell’abito della psicologia spaziale per i futuri astronauti. Il problema, com’è ovvio, è studiare questo genere di condizioni tanto estreme qui, su Terra, riproducendone gli effetti.

Il trio della Penn University è partito dalla letteratura esistente concentrandosi sulle testimonianze disponibili degli astronauti che nello Spazio sono già stati. I temi che emergono ricorsivamente sono il concetto di unione, vastità, connessione con il tutto, nell’ambito di un’esperienza vissuta come eccezionale e che ha cambiato loro la vita.

«Nel resoconto di queste esperienze ci sono forti analogie con quanto riferito da altri scienziati che pure vivono ambienti estremi nel corso di missioni di lunga durata, non necessariamente nello Spazio», spiega Denise Giuliana Ferravante, psicologa, ricercatrice ENEA presso l’Unità Tecnica Antartide e docente presso la Facoltà di Medicina e Psicologia di Sapienza Università di Roma, che abbiamo raggiunto telefonicamente.

«Le persone che partecipano alle spedizioni invernali in Antartide, per esempio, vivono per un anno in completo isolamento presso la base Concordia. Ci troviamo sul plateau antartico a 3.330 metri di altitudine, a temperature prossime agli 80° sotto zero in inverno, con 6 mesi circa di buio 24 ore su 24. Dai debriefing post spedizione – e siamo ormai al dodicesimo anno – tutte le persone riferiscono che l’esperienza più entusiasmante è legata all’ambiente naturale la cui percezione e visione può essere paragonata a un’esperienza trascendentale. Parlano di emozione intensa alla vista dell’infinita distesa di ghiaccio, acuita dalla consapevolezza di completo isolamento al pari di un astronauta nello Spazio. Altrettanto emozionante è la visione del cielo stellato e della Luna, per non dire dell’aurora australe caratterizzata da scie di luce che creano suggestivi effetti cromatici».

Per Ferravante, che in passato si è occupata del programma ESA Mars500 (la facility messa a punto dall’Agenzia Spaziale Europea e dal Russian Institute for Biomedical Problems per studiare la reazione di sei astronauti a un viaggio simulato verso Marte), siamo di fronte a eventi quasi irripetibili: «Si tratta di esperienze vissute da persone che sono in condizioni particolari di isolamento e confinamento, caratterizzate da una particolare disponibilità e apertura all’esperienza da parte dei soggetti fruitori, consapevoli di essere immersi in ambienti unici e differenti da quanto sperimentato normalmente e proprio perciò disponibili a stupirsi e a meravigliarsi accogliendo, con la massima attivazione sensoriale, gli elementi percettivi, emotivi e cognitivi con cui entrano in contatto».

«È qualcosa di simile a quello che proviamo quando ammiriamo la struggente bellezza di un tramonto, immersi nella natura», spiega David Yaden dell’Università della Pennsylvania. «Gli astronauti vivono un’esperienza altrettanto affascinante, ma ben più radicale. E sappiamo quanto, in psicologia, studiare una versione estrema di un fenomeno conosciuto ci aiuti a scoprire molto di più sul fenomeno stesso».

Se vi aspettate una descrizione puntuale di questo stato di estasi religiosa, tipico di chi fa meditazione o induce al proprio cervello stati alterati della coscienza facendo ricorso alla chimica, ebbene vi sbagliate. Anche uno scienziato in viaggio per Marte può provare la sensazione di beatitudine guardando la Terra, tutta racchiusa nell’oblò di un veicolo spaziale. Come metterci nei suoi panni? Una parte di risposta potrebbe arrivare con l’utilizzo della realtà virtuale, che potrebbe indurre un effetto simile all’overview effect. Il tema interessa un po’ tutti: da SpaceX a Blue Origin e Virgin Galactic, tutti sono convinti che l’aspetto psicologico nelle missioni di lunga durata non debba in nessun modo essere sottovalutato.

di Media INAF
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