I numeri difficilmente sbagliano, come dicono gli americani che per le statistiche hanno una passione che a noi, latini, appaiono spesso esasperate o fuori di luogo. Ma ci sono numeri e numeri e quello degli interventi di lobotomia eseguiti, fino alla metà degli anni ’80, in Francia, Belgio e Svizzera, merita attenzione non per il loro valore assoluto – 1.340 – quanto per le percentuali, perchè per l’84 per certo rigurdavano donne.
La lobotomia, riporto la definizione di un dizionario di medicina, ”consiste nel sezionare le connessioni nervose da e per la corteccia prefrontale, la parte più anteriore dei lobi frontali”. Gli effetti dell’intervento si traducevano nel provocare un mutamento della personalità, attenuando, ad esempio, atteggiamenti aggressivi che la medicina non riusciva a contenere con la somministrazione di farmaci. Era l’ultima ratio del medico che, davanti a gravi patologie psichiatriche, si determinava a chiedere aiuto alla chirurgia. Quindi sotto i ferri finivano, ad esempio, soggetti affetti da schizofrenia e depressione. Patologie non di genere, certamente, e che non spiegano l’enorme disparità nella percentuali di donne che venivano lobotomizzate, quando la psichiatria preferiva percorrere scorciatoie che venivano giustificate con l’altrimenti asserita inguaribilità del paziente.
Questi dati, nonostante l’enormità del loro contenuto, hanno guadagnato solo poche righe sulla rivista ”Nature”, forse la più famosa pubblicazione scientifica al mondo. Le hanno scritte tre neurochirughi francesi: Louis-Marie Terrier (dell’ospedale Bretonneau, a Tours), Marc Lévêque (del Beauregard, di Marsiglia) e Aymeric Amelot (del Pitié-Salpêtrière, di Parigi).
Si deve a loro, che hanno spulciato le pubblicazioni sulla lobotomia, se si è scoperto che su 100 malati sottoposti a queste operazioni al cervello, le donne erano 84. La cosa che forse può apparire sorprendente è che quando nel 1976 Milos Forman, col suo ”Qualcuno volò sul nido del cuculo”, sconvolse il mondo, la lobotomia era ancora praticata. Non su vasta scala, ma lo era ancora. E scossero più di centomila relazioni mediche le scene in cui un superbo Jack Nicholson, nei panni del finto malato Randle McMurphy, veniva lobotomizzato per stroncarne le ribellioni che stavano rivoltando l’universo dormiente di un centro per malati di mente. E la scena finale, quando McMurphy, ridotto ad una burattino dai fili recisi, come le connessioni nervose che gli erano state tagliate, viene soffocato da un altro ‘pazzo per convenienza’, l’indiano interpretato da Will Sampson, gli spettatori, colpiti, annichiliti dall’immensità del dramma, gioivano perchè, senza vita, il protagonista aveva riconquistato dignità.
E dire che l’inventore di questa annichilente terapia (che risale al 1949), il portoghese Egas Moniz fu onorato dal Nobel. E non è certo un caso o pura coincidenza che il ‘paziente zero’ della lobotomia sia stata una donna, una ex prostituta di 63 anni, affetta da paranoia, che, dopo avere avuto rimosse le fibre bianche, con iniezioni di una soluzione di alcool puro nel cranio, guarì, nel senso che divenne un essere senza sentimenti, che per questo non diede più problemi a nessuno. La seconda guerra mondiale, con la sua fine, si lasciò dietro una marea di persone con persone psichici che affollavano gli ospedali. E per gli psichiatri le terapie si riducevano a bagni in acqua bollente ed elettroshock. Il manifestarsi di un intervento risolutore, come la lobotomia, raccolse consensi e proseliti, perché la soluzione che proponeva era radicale, efficace, in poche parole definitiva.
Ma il punto è capire – semmai c’è una spiegazione- come mai psichiatri di tre Paesi europei, quindi presumibilmente con una buona se non ottima preparazione, abbiano fatto sì che la quasi totalità dei soggetti da lobotomizzare fossero donne. Quasi che la psichiatria si muovesse per sesso e non per malattie accertate.
In Francia, Svizzera e Belgio la lobotomia era una terapia per sole donne
Lo sconvolgente dato da una ricerca di tre medici francesi. L'intervento praticato sino alla metà degli anni 80, anche dopo che, nel 1976, il film 'Qualcuno volò sul nido del cuculo' mostrò al mondo l'aberrante pratica
Diego Minuti Modifica articolo
13 Settembre 2017 - 13.57
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