Remuzzi tuona: "Con il Covid servono medici e infermieri che vadano in casa dei malati"
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Remuzzi tuona: "Con il Covid servono medici e infermieri che vadano in casa dei malati"

Un'intervista di Antonello Sette per SprayNews al Direttore dell'Istituto Mario Negri

Giuseppe Remuzzi
Giuseppe Remuzzi
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23 Novembre 2020 - 21.16


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di Antonello Sette 

Professor Remuzzi, ci aggiorna sulla situazione?

Bisogna aspettare almeno un paio di settimane – spiega il Direttore dell’Istituto Mario Negri rispondendo all’Agenzia SprayNews – per capire i risultati delle misure prese.

Nell’attesa che passino le due settimane d’attesa, mi può dire in che cosa siamo mancati e dove dovremmo migliorare?

È molto importante, e spero lo abbiano capito tutti, la medicina del territorio.

Siamo in ritardo?

Spero ci si metta finalmente al passo. Ci vogliono le unità speciali di continuità assistenziale, che possano andare a casa dei pazienti con un infermiere e due medici, come mi sembra già si verifichi in Emilia Romagna e cominci a verificarsi in Lombardia. Sono le USCA, in Germania già ci sono con la conseguenza che da loro i pazienti cominciano a curarsi più presto che da noi. Lì ci sono molti più medici e infermieri. Però, i medici e gli infermieri non si possono inventare, quando c’è una pandemia. Noi in Italia, già dal 1914, l’avevo già scritto in passato, si lamenta una deficienza strutturale nell’organico di medici e infermieri. Non è un errore di oggi. Il nostro servizio nazionale è stato ulteriormente sottofinanziato negli ultimi venti anni.

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Arriverà il vaccino. Ci sarà bisogno di una programmazione puntuale ed efficace. Riusciremo a organizzarci bene e per tempo?

Il vaccino, quando arriverà, andrà a coprire in una prima fase le esigenze degli operatori sanitari e delle forze dell’ordine e di tutti quelli che svolgono servizi di pubblica utilità. Le modalità di somministrazione saranno sicuramente più semplici. Agli altri toccherà molto dopo e, quindi, penso che avremo tutto il tempo per organizzarci, anche perché non tutti i vaccini hanno bisogno di una conservazione a ottanta o anche sessanta gradi sotto lo zero e di modalità di trasporto fuori dal comune.

Sembra, però, che gli italiani avanzino a vele spiegate verso il gran rifiuto. Al momento più di un terzo avrebbe scelto di non vaccinarsi. Come se ne esce?

Molto dipenderà da noi medici. Dovremo spiegare come stanno le cose, dovremo essere molto aperti e trasparenti. Non dire che i vaccini non comportano nessun problema, perché i problemi ci saranno e li dovremo spiegare e dire a che punto saremo arrivati. Per esempio, ora sarebbe da spiegare che dei trentamila pazienti che, che hanno fatto da cavia al vaccino Pfizer, sei su cento si sono ammalati, tutti loro facevano parte del gruppo tratto con dosi placebo e pochissimi, invece, sono stati quelli che si sono ammalati, nonostante il vaccino. Se facciamo vedere i numeri, se spieghiamo tutto, io credo che il numero di chi rifiuta il vaccino i credo potrebbe ridursi a poche persone.

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C’è, quindi, un problema di comunicazione?

Secondo me sì. Dobbiamo coinvolgere i cittadini nelle difficoltà, nelle prospettive, nelle speranze, nelle cose straordinarie che sono fatte e in quello che manca ancora. Un vaccino, prima di essere somministrato, deve ottenere l’approvazione di una nutrita serie di organismi di controllo nazionali e internazionali. Quando tutti avranno concesso il loro visto, allora il vaccino potrà, a ragione, considerarsi sicuro. Poi, quanto duri l’immunità non lo sappiamo, come non sappiamo se sarà sicuro a lungo termine.

Lei ha sempre sostenuto che gli ultrasettantenni andavano protetti e che bisognava trovare il modo per farli restare a casa. Le sembra che il problema sia stato risolto?

Io dico che le persone, che hanno settanta od ottanta anni, sono quelle che, se arrivano in rianimazione, hanno molte possibilità di incorrere in complicazioni gravi, anche mortali. La loro è, quindi, la fascia di età da proteggere, ma non so in che modo si possa fare e questo del resto non è mio compito. I politici devono assolutamente sapere quali sono le conseguenze della malattia legate all’età. Il che vuol dire, in buona sostanza, che gli ultrasettantenni in rianimazione non ci dovrebbero proprio arrivare perché per loro il rischio, a quel punto, è troppo alto.

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