Lo studio: la variante indiana sul Covid è più contagiosa di quella inglese
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Lo studio: la variante indiana sul Covid è più contagiosa di quella inglese

La causa sono due mutazioni che facilitano il coronavirus nell''agganciare' le cellule dell'ospite. Ma la buona notizia è che i vaccini disponibili funzionano

Covid in India
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25 Maggio 2021 - 13.16


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Quella inglese era più contagiosa della precedente. E ora quella indiana è più contagiosa di quella inglese che era più contagiosa di quella della prima ondata. Sempre un gioco all’inseguimento.
La variante indiana del virus Sars-Cov-2 è più contagiosa di quella inglese. La causa sono due mutazioni che facilitano il coronavirus nell”agganciare’ le cellule dell’ospite. Ma la buona notizia è che i vaccini disponibili funzionano anche contro ‘l’indiana’, in particolare dopo la seconda dose che, dunque, è utile non ritardare oltre le indicazioni dei trial di approvazione.
Sono le conclusioni di uno studio internazionale, realizzato però da un team di italiani – che lavorano in patria e all’estero – tra i quali Massimo Ciccozzi, responsabile dell’unità di Statistica medica ed epidemiologia del Campus Bio-Medico di Roma.
Lo studio è al momento pubblicato in preprint su BioRxiv ma è in valutazione per la pubblicazione, prevista a breve, su un’importante rivista.
“Nella variate indiana il virus presenta, in particolare, due mutazioni che la rendono più contagiosa di quella inglese. E non a caso è temuta in Gran Bretagna”, ha ribadito  Ciccozzi.
“Le mutazioni della variante indiana – ha spiegato ancora Ciccozzi – stabilizzano di più la proteina Spike e rendono più semplice ‘l’aggancio’ al recettore Ace2 perché, con questa mutazione, aumenta la carica elettrica positiva. E questo permette di agganciare più recettori rispetto alla variante inglese. In pratica, il ‘braccetto’ del virus responsabile dell”aggancio’ normalmente è mobile, oscilla. Quindi può agganciare oppure non farlo, perché l’oscillazione non lo rende preciso. Con questa mutazione il ‘braccetto’ si stabilizza, oscilla poco e quindi aggancia più facilmente” la cellula.
La buona notizia è che per quanto riguarda i vaccini “non cambia nulla – ha continuato Ciccozzi – come indica anche un lavoro dell’Istituto di sanità pubblica inglese, secondo il quale, a livello di copertura vaccinale, la variante indiana è coperta da Pfizer all’88%, da AstraZeneca al 63%. Questo, però, dopo la seconda dose. Dopo la prima dose per tutti i vaccini l’efficacia è del 33%”.
La prima dose, insomma, sembra coprire meno i rischi da variante indiana, ma dopo il richiamo le percentuali di copertura si riallineano.
“Questo suggerisce che è preferibile, se possibile, non allungare i tempi della somministrazione della seconda dose rispetto a quanto stabilito dagli studi di registrazione dei vaccini, perché significherebbe avere una copertura bassa per più tempo tra la prima e la seconda. Speriamo che con l’arrivo di tanti vaccini previsti non ci sia bisogno di ricorrere a questa strategia”, ha concluso, ricordando che allo studio hanno partecipato illustri colleghi italiani come Davide Zella, co-direttore del Laboratorio di Biologia delle cellule tumorali all’Institute of Human Virology dell’Università del Maryland, “il laboratorio di Robert Gallo”, ha ricordato.
E ancora: Roberto Cauda, dell’Istituto di Clinica delle malattie infettive Università Cattolica; Arnaldo Caruso, del Dipartimento di microbiologia e virologia degli Spedali Civili di Brescia; Antonio Cassone del Dipartimento di Genomica, Genetica e Biologia dell’Università di Siena; Francesco Broccolo, virologo dell’università Milano-Bicocca; Marta Giovanetti “mia ricercatrice che lavora in Brasile”, ha elencato.

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