Giampaolo Pansa e un modo di fare giornalismo da ritrovare
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Giampaolo Pansa e un modo di fare giornalismo da ritrovare

Adele Grisendi, Franco Bechis, Marco Damilano e Luca Telese lo hanno ricordato sabato a Radicofani insieme a Lorenza Foschini

Giampaolo Pansa e un modo di fare giornalismo da ritrovare
Luca Telese e Adele Grisendi sul palco del teatro di Radicofani
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25 Novembre 2024 - 15.10 Culture


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di Luisa Marini

Sabato 23 novembre, all’incontro organizzato dall’associazione Pyramid nell’ambito di “La Posta Letteraria OFF”, il Teatro di Radicofani era pieno e non si è respirata quell’aria di ricordo ingessato che spesso hanno incontri di questo tipo. Giampaolo Pansa, esponente di spicco del grande giornalismo del nostro paese, ha trovato espressione nelle parole di chi lo ha conosciuto. Così, anche attraverso molti aneddoti sulla sua vita, è stata coinvolta la platea che ha sorriso ma che a tratti si è anche commossa e, soprattutto, si è reso viva e presente la sua particolare umanità.

Lorenza Foschini, giornalista e scrittrice, moderatrice della serata, ne ha ricordato anzitutto la libertà nello scrivere sempre le proprie idee, e i suoi vecchi allievi, oggi giornalisti affermati, hanno subito ricordato la sua attenzione alle persone, cosa che hanno ritrovato difficilmente in altri. Pansa infatti aveva una personalità burbera ma affettuosa, curiosa di tutto, ma soprattutto degli individui. Luca Telese, giornalista di La7 e direttore de Il Centro, ricordando la prima cena a casa sua, ha raccontato: “Conoscendoti, voleva sapere tutto di te, e ti faceva il terzo grado: era davvero interessato a sapere chi avesse di fronte”.

Ed ecco la sua innovazione: osservare, vedere i personaggi della politica italiana attraverso i loro gesti e smorfie. Col suo binocolo Zeiss, dalla tribuna di Montecitorio, avvicinava al suo sguardo il personaggio e vi ritrovava la persona, con i suoi pregi e difetti, ingrandendo la sua umanità, grottesca, a tratti spregevole. Questo suo metodo ha cambiato il modo di fare giornalismo.

Lorenza Foschini ha ricordato come fosse noioso, prima di lui, il resoconto politico (detto “il pastone”), ma tutti si dovettero adeguare al suo modo di raccontare: Pansa “aveva dato importanza ai dettagli in quanto segnali rivelatori di un personaggio, di un momento preciso, creando soprannomi mordaci, immagini indimenticabili (come la canottiera di Craxi!)”. E Luca Telese ha aggiunto che “Pansa era avanti. Il suo modo di raccontare la politica era già pronto per la Seconda Repubblica: con il suo Bestiario aveva creato un nuovo vocabolario, fondeva la scrittura con il suo innato senso di curiosità”.

Ma ancor prima, Pansa capì che il giornalismo non poteva essere un fatto d’élite e che, necessariamente, doveva sporcarsi le scarpe: come da giovane inviato sulla tragedia del Vajont, quando si accorse che era immerso nel fango misto al sangue delle vittime.  Mentre gli altri colleghi – il club dei giornalisti, come li definiva – erano a cena insieme, lui iniziava il suo famoso reportage su La Stampa con queste parole: “Scrivo da un paese che non esiste più: spazzato in pochi istanti da una gigantesca valanga d’acqua, massi e terra piombata dalla diga del Vajont…

“Orgoglioso di essere un outsider, rivoluzionò un vecchio modo di fare giornalismo con la sua capacità di racconto per immagini, inaugurando un nuovo modo di vedere”, ha sottolineato ancora Telese. Inoltre, “Giampaolo Pansa aveva un grande rispetto umano: anche se avevi idee diverse, lui non cercava lo scontro, bensì il dialogo”.

Marco Damilano, direttore de L’Espresso dal 2017 al 2022, dove lo conobbe di persona, in realtà lo seguiva già da giovanissimo lettore della Repubblica, a inizio anni Ottanta: “Avevo 13 anni e tutte le mattine compravo il quotidiano per leggerlo in viaggio verso la scuola. Mi ricordo il suo articolo in prima pagina del 15 aprile 1982, che ritagliai e ancora conservo, che raccontava del primo processo alla colonna romana delle Brigate Rosse. Nel suo racconto i terroristi, definiti “banda di disperati”, dalle gabbie ridevano in faccia ai familiari delle vittime, che Pansa ha sempre considerato le grandi dimenticate dalla Storia. Pansa lavorava sempre in presa diretta, e l’impatto delle sue immagini sul lettore era forte e immediato. Da quell’articolo, pensai che avrei voluto fare questo lavoro”.

E ha continuato: “Pansa intuisce che il racconto giornalistico deve avere un legame storico, perché tratta le radici profonde del nostro Paese; lo rammaricava il fatto che in Italia una certa guerra civile, fatta di parole e sangue, non fosse mai finita. Diceva “l’hombre vertical (come venne definito una volta Sandro Pertini) deve restare in piedi fino all’ultimo. E infatti si metteva sempre in discussione; la fase più vivace della sua attività fu quando cercò appunto di dar voce ai vinti. Fu un gesto di sfida”.

Franco Bechis, direttore della testata online Open fondata da Enrico Mentana, lo ha ricordato così: “Avevo conosciuto Pansa già nell’84, prima di Libero, a 22 anni: un amico torinese che faceva il giornalista a Roma mi aveva invitato dicendomi “così impari cos’è la politica a Roma”; andai al congresso della Dc all’Eur, dove lo incontrai e osai chiedergli un’intervista, che mi concesse. Ma quando scrisse il suo libro-intervista a Cesare Romiti, fui molto critico, soprattutto sulle domande non fatte; lui però non me ne volle e con me fu sempre attento: mi leggeva e poi mi lasciava i suoi commenti sulla segreteria telefonica, che ancora conservo. È stato il mio modello, ho imparato da lui il metodo di guardare i particolari come chiave per interpretare le persone e i momenti politici. Giampaolo Pansa era capace di capire il talento degli altri, anche di un ragazzino, e incoraggiarlo.”

Pansa raccontava come la sua vita fosse cambiata conoscendo quella che poi è diventata la sua compagna. Adele Grisendi, ex dirigente della Cgil, poi scrittrice, ha tratteggiato un ricordo franco e schietto di lui, iniziando dal primo incontro, piuttosto comico, nell’89 su un treno per Firenze, in cui aveva azzardato a chiedergli cosa stesse succedendo a Botteghe Oscure (sede storica del Pci a Roma, n.d.r.). “Giampaolo aveva un’inesauribile passione per il proprio mestiere: ne fu entusiasta fino alla fine. Era molto curioso di tante cose, e colto. Aveva passione per i giovani che si avvicinavano al suo mestiere, riconosceva in loro la sua stessa passione ed era felice di aiutarli. Luca (Telese) e Marco (Damilano) li ho conosciuti a cena da noi. E ha continuato parlando del ruolo avuto dalla mamma Giovanna nella sua formazione, e di quanto lui avesse un grande rispetto per le donne. Lei, che ieri sera ha detto più volte “di fronte a lui mi sentivo niente”, fu molto incoraggiata dal suo compagno, ed ebbe una parte fondamentale nel suo lavoro, curandone anche l’immenso archivio.

Telese ha raccontato ancora che “Pansa, nato negli anni Trenta del secolo scorso, aveva attraversato tutto, dalla Resistenza al Miracolo economico, ed era stato testimone sensibile della Guerra Civile e degli Anni di Piombo. Mi disse de L’utopia armata: “Le cose più importanti sono fuori dal libro: io dovevo morire, sono sopravvissuto all’agguato delle BR perché, nel condominio dove vivevo, c’erano quattro ingressi diversi e quel giorno, non trovando le chiavi, ero dovuto uscire da un ingresso secondario, arrabbiato perché così perdevo più tempo. E hanno ucciso Tobagi al posto mio”.

Sempre Telese ha spiegato: “Pansa viveva dentro di sé il dramma del rischio per la democrazia in Italia in quel momento. Da qui sentì il bisogno di tornare a parlare della Guerra Civile, perché percepiva che si stesse tornando a un momento simile (Fini e An, Berlusconi), e scrisse dei libri che sono diventati popolari (il ciclo del Sangue dei Vinti, n.d.r.), ma che hanno attirato subito anche critiche. Discutemmo, e mi disse: “Io devo essere revisionistico, perché devo far arrivare il mio punto di vista. Io mi metto in gioco, io rischio il mio nome perché altrimenti non avrei la forza per andare avanti, non perché sono diventato fascista, ma perché devo tirare dentro quelli che sono stati lasciati fuori”.  

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