Paparelli: ecco quello che volevo dire davvero
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Paparelli: ecco quello che volevo dire davvero

Ho sempre combattuto la violenza, mi sono speso per il caso Sandri: le accuse mi hanno fatto male. [Tonino Cagnucci]

Paparelli: ecco quello che volevo dire davvero
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13 Gennaio 2014 - 19.07


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Dopo le polemiche sul pezzo [url”Il Romanista: Paparelli un errore”]http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=53298&typeb=0&Il-Romanista-Paparelli-un-errore[/url], ha scritto a [i]Globalist l’autore del pezzo contestato, Tonino Cagnucci. [/i]

di Tonino Cagnucci

M’avessero detto qualsiasi altra cosa m’avrebbero fatto meno male. Scrivo di getto perché sennò non scrivo più, poi – se serve – riscriverò ancora, e ancora. Mi prenderò tutto il tempo, adesso scrivo male magari così sarò capito meglio. Appena ho visto [url”questo articolo”]http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=53298&typeb=0&Il-Romanista-Paparelli-un-errore[/url] la prima cosa che ho fatto è stata chiamare Giorgio Sandri, m’è venuto spontaneo e spontaneamente gli ho raccontato quello che sta succedendo. Era come se glielo dovessi, a lui e a tutto quello che rappresenta per me. Mi ha detto “viviamo in un mondo di cacca caro Tonino”. Giorgio Sandri una volta è andato in Curva Sud, in un derby: ci è venuto grazie al suo cuore, al suo coraggio, e anche a una mia idea. L’ho intervistato insieme a Cristiano il 3 gennaio 2008 (per il giornale del 4 gennaio) quando la vicenda Gabbo già sembrava andare nel dimenticatoio. Fra tutte le cose che ho fatto nella mia carriera da giornalista (che chissà perché non è andata mai incontro ai potenti, semmai contro) l’intervista a Giorgio e Cristiano è la cosa che ho più a cuore, chi mi conosce lo sa, lo sa anche la famiglia Sandri. Ce l’ho a cuore più di quando scrivevo di Calciopoli, di Soros, di quando sono andato con Totti in Sud o con Giorgio Rossi a Testaccio, del miglior pezzo mai fatto dopo una partita della Roma.

Il giorno dopo l’allora radio degli Irriducibili fece tutta la trasmissione con la mia intervista, ne fui enormemente onorato. Lo sono ancora. Era il 4 gennaio 2008, il titolo del giornale era “Gabbo è vivo” e nel sommario in prima Giorgio raccontava “di voler andare in Curva Sud”. Nell’intervista chiesi io di Paparelli, dei cori, del fiore nato da Gabbo che adesso ha trasformato quei cori in una solidarietà che solo gli ottusi, i meschini, gli ipocriti e i cosiddetti benpensanti non riescono a capire. Il 18 marzo del 2008 su Il Romanista raccogliemmo un’intervista a Gabriele Paparelli denunciando il fatto che né la Roma, né la Lazio avevano raccolto anche il suo di invito di andare in Curva Sud. È tutto consultabile, è tutto scritto, documentato, anche troppo che faccio fatica a raccogliere tutto, ma lo farò anche se chi mi conosce non ha bisogno di documenti né di “prove”. Ce ne ho tante. Ce le ho dovunque. C’ho una vita vissuta in un certo modo. L’ho scritto anche nel mio secondo libro, in un capitolo che si intitola “L’antilazialità spiegata a mio figlio”. La spiego in quel capitolo, la spiego cominciando proprio da un’altra chiacchierata fatta (la seconda proprio per scrivere il libro su Totti) con Giorgio e Cristiano al loro negozio, era appena nato Gabriele. Era bellissimo.

Nell’articolo sul Commando ho cercato invece di spiegare, semplicemente di raccontare quello che è stato questo gruppo, che è stato un sentimento, un modo d’essere, un modo – e così io l’ho vissuto – d’amare, il Commando Ultrà Curva Sud. Avrei potuto benissimo saltare a pie’ pari la tragedia di Vincenzo Paparelli, e nessuno avrebbe detto niente, ma sarebbe stato ipocrita e, per la mia onestà intellettuale persino grave. Ho una coscienza e a quella rispondo sempre, proprio non ci riesco a farne a meno. Ho un figlio per il quale voglio essere d’esempio. Io devo rispondere sempre e solo ai suoi occhi. Ho scritto nel pezzo: “Anche la morte, il rispetto: 28 ottobre maledetto.. Vincenzo Paparelli, il dramma, l’errore che non doveva verificarsi. Il dolore …”. Ho scritto che “stavolta non doveva farlo”. Che è stato un errore tragico, un giorno maledetto ma che comunque non andava commesso.

Il termine errore non è assolutorio verso nessuna azione assassina, anzi. È stato un errore di un tempo, di un’epoca, anche quella degli Anni 70, di un periodo in cui la vita veniva spezzata troppo facilmente non solo negli stadi. Un omicidio è l’errore massimo. È stato un errore tragico che non doveva mai capitare. Mai. L’ho scritto in un pezzo che ricorda il Commando, su un giornale che si chiama Il Romanista a dei romanisti perché nessuno deve fare finta di niente mai, tutti devono fare i conti con la propria storia. Ho scritto del dramma di Tzigano, un altro dramma e ho chiuso la vicenda là (Tzigano è stato latitante, non so quanto sia stato in galera, poi è morto 15 anni dopo). Al limite posso essere accusato di pietà cristiana, umana, ma quell'”Onore a chi ci ha lasciato con la Roma nel cuore” è rivolto in generale a chi non c’è più, è già un altro discorso, faccio i nomi di Geppo e Roberto e avrei potuto farne – purtroppo – mille altri: non è mai, né può essere mai un onore a nessun assassino, né una sottolineatura di questo genere. È scritto in corsivo proprio per avere cura di staccare questa frase dal contesto, perché tutto il pezzo è intervallato da frasi, frasi di canti e o di striscioni che chi è romanista conosce bene (ma anche semplicemente chi è un calciofilo e un cultore del mondo delle curve) fanno parte quasi del nostro patrimonio, del nostro ricordo, le ho usate come interpunzione.

“Onore a chi ci ha lasciato con la Roma nel cuore” è uno striscione di un derby, quando la Curva fra l’altro e santamente aveva già preso le distanze proprio da un certo passato, da certi slogan che non possono più avere ospitalità da nessuna parte. Perché, scritto subito dopo, sempre corsivo, “il Commando riproduce er popolo, no quello der coltello, ma quello che fatica fra mazzo e l’allegria”. Era scritto su un giornalino che davano in Curva, mi ci si sono sempre identificato. Ma tutto il pezzo parla di un sentimento, è un pezzo di diecimila battute che si chiude come era iniziato “c’è stato un tempo in cui il popolo è stato al potere e con quel potere ha detto ti amo”. Ho parlato di quel “Ti amo”. Quello è il mio modo di intendere la Roma, il tifo, lo stadio, il termine ultrà che poi è diventato ultras. Certe cose non le ho mai fatte passare. Da me certe cose non hanno mai avuto spazio. Su questo giornale non è mai passato niente. Abbiamo fatto persino il 25 luglio di quest’anno con quella splendida scritta su un muro di Roma “Sandri, De Falchi, Paparelli… Di questa città i fiori più belli”. Ma sono appena solo esempi.

Malgrado tutto questo, malgrado l’evidenza, il senso, la verità, se quel passaggio può essere già solo equivocabile da Gabriele Paparelli, dalla sua famiglia a di chi sinceramente soffre di quella tragedia, a loro solo a loro chiedo scusa, perché di fronte a quella tragedia, all’abominio di togliere una vita, non c’è senso di giustizia e ferita profonda che mi è stata fatta che tenga. Per me questo non è nemmeno uno sforzo, so il valore profondo della vita; lo vedo negli occhi di mio figlio ogni giorno. E non c’è niente che vale una vita, niente, niente.

Ma chi non onora il suo ricordo è chi ha utilizzato e strumentalizzato le mie parole. Chi pensa certe cose è perché le può fare. Lo schifo che sento è proprio questo. Ma a Gabriele, con tutta l’umiltà di questo mondo, chiedo anche di vedere i tanti commenti che ci sono stati a seguito del mio pezzo che sono esattamente il contrario di quello che hanno voluto far passare. A Gabriele racconterò in privato anche le telefonate avute e il loro contenuto.

Un’ultima cosa, quest’articolo è stato scritto l’8 gennaio 2007 (sì nel 2007, 7 anni fa) e pubblicato su Il Romanista il giorno dopo, lo scorso 9 gennaio è stato semplicemente riproposto, così come era stato riproposto l’anno scorso proprio per quello che era riuscito a suscitare in chi lo aveva letto, In 7 anni nessuno aveva mai equivocato (e su Internet ha sempre girato). Nemmeno l’anno scorso nessuno aveva equivocato ed eravamo già nell’epoca dei sociale network: personalmente mi sono iscritto a Twitter proprio il 9 gennaio 2013 perché ci tenevo a quel pezzo… di cuore. E’ stato il mio primo tweet (scusate, ma bisogna specificare anche certe cose). Nemmeno il 9 gennaio 2014 era successo niente. Sono passati 7 anni, tre pubblicazioni e quattro giorni prima che qualcuno si mettesse a tirare un termine e a stravolgere il senso di un pezzo che è chiaro dall’inizio alla fine. Che finisce con un Ti Amo. E’ quello che ho cercato di scrivere.


[b]La replica di Globalist[/b] – Abbiamo pubblicato volentieri la precisazione di Tonino Cagnucci, lasciando a lui il diritto di replica.
Prendiamo volentieri atto dei chiarimenti e del fatto che, nonostante alcuni passaggi del testo potessero apparire come minimizzazione del caso Paparelli ed eccessiva pietas verso il suo assassino, non era questa l’intenzione dell’autore.

Alla luce di questa precisazione consideriamo alcuni aspetti della nostra critica superati e ritiriamo l’espressione “Peggio di così c’era stata solamente la giustificazione del kamikaze che si era fatto saltare a Nassiriya”.

Conosciamo da molti anni le battaglie di Carmine Fotia contro la mafia, i poteri criminali e più in generale contro la violenza. Ci fa piacere apprendere che Tonino Cagnucci esprima gli stessi valori.

Chiudiamo questa polemica chinandoci alla memoria di tutti gli innocenti uccisi, indipendentemente dalle bandiere.

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