Essere convalescenti non vuol dire essere stanchi. Appena rientrato in Vaticano infatti il papa ha reso noto con lo strumento classico del “motu proprio”, ciò un decreto, che da qui in avanti si potrà celebrare soltanto con il nuovo messale, quello nato dalla riforma del Concilio Vaticano II, salvo regolate eccezioni. Il senso è chiaro: la Chiesa cattolica è una e riconosce il Concilio Vaticano II.
Ma la novità, rilevante, è già nel titolo! Il testo si intitola “custodi della trazione” e il soggetto sono i vescovi, non i papi. Sono i vescovi, successori degli apostoli, che devono custodire la tradizione. Nel verticismo romano non è poco, è moltissimo. La principale riforma che emerge è infatti proprio questa: il papa non dispone la libertà di celebrare, ma chiede ai vescovi, indicando certe regole, di decidere come si celebrerà. Aggiungendo che questa facoltà è concessa a chi già celebra, non ai futuri presbiteri: perché la Chiesa oggi ha un suo messale, quello stabilito dal Concilio. Dunque la novità è questa: il rito è uno, non ne vigono due.
La fedeltà al vecchio messale era stato uno dei motivi dello scisma di monsignor Lefebvre, il vescovo ribelle che in realtà contestava le grandi novità culturali conciliari, a partire dalla più importante, la libertà religiosa. La ricezione del Concilio e del suo pieno significato e valore non è stata facile, ci sono stati eccessi, anche liturgici, come tentativi di annacquamento. Con Francesco si è passati dall’interpretazione all’attuazione del Concilio.
Il papa si rammarica degli eccessi che riconosce, apprezza gli sforzi di Giovanni Paolo II e poi in maniera più estesa di Benedetto XVI che avevano previsto delle deroghe alla celebrazione secondo il nuovo rito, quello che gira gli altari e usa le cosiddette “lingue volgari”, per preservare l’unità della Chiesa. Ma deve prendere atto che questo sforzo non è riuscito nel suo intento, tanto da scrivere nella lettera che ha inviato a tutti i vescovi: “è sempre più evidente nelle parole e negli atteggiamenti di molti la stretta relazione tra la scelta delle celebrazioni secondo i libri liturgici precedenti al Concilio Vaticano II e il rifiuto della Chiesa e delle sue istituzioni in nome di quella che essi giudicano la “vera Chiesa”. Si tratta di un comportamento che contraddice la comunione, alimentando quella spinta alla divisione – «Io sono di Paolo; io invece sono di Apollo; io sono di Cefa; io sono di Cristo» –, contro cui ha reagito fermamente l’Apostolo Paolo. È per difendere l’unità del Corpo di Cristo che mi vedo costretto a revocare la facoltà concessa dai miei Predecessori. L’uso distorto che ne è stato fatto è contrario ai motivi che li hanno indotti a concedere la libertà di celebrare la Messa con il Missale Romanum del 1962. Poiché «le celebrazioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che è sacramento di unità», devono essere fatte in comunione con la Chiesa. Il Concilio Vaticano II, mentre ribadiva i vincoli esterni di incorporazione alla Chiesa – la professione della fede, dei sacramenti, della comunione –, affermava con sant’Agostino che è condizione per la salvezza rimanere nella Chiesa non solo con il corpo, ma anche con il cuore.” Dunque, come vedremo, il vecchio Messale non viene bandito, ma toccherà ai vescovi di nuovo ai vescovi ordinare, regolare, avendo chiaro che non può nascere una costola ecclesiale contro il Concilio.
Che le cose stessero come dice Francesco è evidente a chiunque osservi con onestà. Qualche nostalgico, o amante del latino, ci sarà anche stato, ci sarà ancora, ma l’attaccamento al Missale Romanun, cioè alla messa in latino, è stato soprattutto una forma di rifiuto del Concilio e delle sue novità, in particolare della libertà religiosa, architrave conciliare.
E’ molto interessante che ai “tradizionalisti”, che dalle prossime ore già si sa che reagiranno parlando di atto dispotico, di rifiuto della tradizione e cose simili, Francesco già risponda collegando la sua decisione con la tradizione romana della Chiesa: “ Mi conforta in questa decisione il fatto che, dopo il Concilio di Trento, anche san Pio V abrogò tutti i riti che non potessero vantare una comprovata antichità, stabilendo per tutta la Chiesa latina un unico Missale Romanum. Per quattro secoli questo Missale Romanum promulgato da san Pio V è stato così la principale espressione della lex orandi del Rito Romano, svolgendo una funzione di unificazione nella Chiesa. Non per contraddire la dignità e grandezza di quel Rito i Vescovi riuniti in concilio ecumenico hanno chiesto che fosse riformato; il loro intento era che «i fedeli non assistessero come estranei o muti spettatori al mistero di fede, ma, con una comprensione piena dei riti e delle preghiere, partecipassero all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente». San Paolo VI, ricordando che l’opera di adattamento del Messale Romano era già stata iniziata da Pio XII, dichiarò che la revisione del Messale Romano, condotta alla luce delle più antiche fonti liturgiche, aveva come scopo di permettere alla Chiesa di elevare, nella varietà delle lingue, «una sola e identica preghiera» che esprimesse la sua unità. Questa unità intendo che sia ristabilita in tutta la Chiesa di Rito Romano”.
Come detto Francesco non cala la scure. I vescovi potranno consentire, a chi già lo fa, di partecipare alla messa in latino. Ecco al riguardo cosa stabilisce il papa: “ il vescovo, nelle diocesi in cui finora vi è la presenza di uno o più gruppi che celebrano secondo il Messale antecedente alla riforma del 1970: accerti che tali gruppi non escludano la validità e la legittimità della riforma liturgica, dei dettati del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Sommi Pontefici: indichi, uno o più luoghi dove i fedeli aderenti a questi gruppi possano radunarsi per la celebrazione eucaristica (non però nelle chiese parrocchiali e senza erigere nuove parrocchie personali); stabilisca nel luogo indicato i giorni in cui sono consentite le celebrazioni eucaristiche con l’uso del Messale Romano promulgato da san Giovanni XXIII nel 1962. In queste celebrazioni le letture siano proclamate in lingua vernacola, usando le traduzioni della sacra Scrittura per l’uso liturgico, approvate dalle rispettive Conferenze Episcopali: nomini, un sacerdote che, come delegato del vescovo, sia incaricato delle celebrazioni e della cura pastorale di tali gruppi di fedeli. Il sacerdote sia idoneo a tale incarico, sia competente in ordine all’utilizzo del Missale Romanum antecedente alla riforma del 1970, abbia una conoscenza della lingua latina tale che gli consenta di comprendere pienamente le rubriche e i testi liturgici, sia animato da una viva carità pastorale, e da un senso di comunione ecclesiale. È infatti necessario che il sacerdote incaricato abbia a cuore non solo la dignitosa celebrazione della liturgia, ma la cura pastorale e spirituale dei fedeli”. E affinché sia tutto chiaro si aggiunge più avanti: “I presbiteri ordinati dopo la pubblicazione del presente Motu proprio, che intendono celebrare con il Missale Romanum del 1962, devono inoltrare formale richiesta al Vescovo diocesano il quale prima di concedere l’autorizzazione consulterà la Sede Apostolica. I presbiteri i quali già celebrano secondo il Missale Romanum del 1962, richiederanno al Vescovo diocesano l’autorizzazione per continuare ad avvalersi della facoltà”.