Se il selvaggio è buono chi lo convertirà? E’ questo l’angoscioso quesito dal quale prende le mosse buona parte della lettura dell’intransigenza cattolica davanti al problema posto dal mito creato da Jean Jacques Rousseau del “buon selvaggio”. E’ un mito, ma che parte da un’idea abbastanza semplice: in origine l’uomo era buono, vivendo “selvaticamente” nella natura dimostrava un’indole, una natura, pacifiche, buone. Poi il cammino delle civiltà ha fatto sopraggiungere molti problemi che lo hanno modificato, rendendolo anche “cattivo”. Ma in origine , nel loro stadio naturale, gli uomini non erano animali malvagi. La teoria di Jean Jacques Rousseau non è innocua e non è tutta qui, ovviamente. Ha anche dei possibili sviluppi molto problematici. Ma ciò che da tempo ha dato fastidio a un certo cristianesimo è che facesse “buoni” anche coloro che non sono cristiani.
Ora accade che un gravissimo fatto di cronaca porti in evidenza l’azione criminale di due maschi, uno straniero di origini nord africane e un suo complice italiano. Il fatto è gravissimo in sé. Ma in una conferenza stampa di Fratelli d’Italia questo dato oggettivo, la presenza di un nord-africano tra i due, elimina l’altro e comporta una constatazione: l’immigrazione è fuori controllo. Quindi occorre garantire la sicurezza degli italiani e fermare l’arrivo di questi immigrati debiti al male: “Altro che retorica del buon selvaggio”. Siccome il buon selvaggio è quello di Rousseau, viene da chiedersi: il Marocco è un Paese di selvaggi? Le città imperiali, Fes, Meknes, sono grotte? Si vive nelle capanne? Nel 1947 lo scrittore americano Paul Bowles si trasferì a Tangeri, diventando il punto di riferimento di una sorta di circolo letterario che annoverava, tra gli altri, Truman Capote, Gore Vidal, Tennessee William e diversi esponenti della Beat Generation come Allen Ginsberg, William S. Burroughs e Jack Kerouac. Erano tutti esploratori?
No, dietro a questa uscita non c’è solo un possibile svarione; forse c’è altro. Basta curiosare un po’ su internet per farsi sorprendere da una possibilità. Esiste una vasta letteratura che insiste sull’idea, come secoli fa, che esista un obbligo di convertire i selvaggi, come in questo brano si capisce chiaramente: “Chi guarirà il peccato del selvaggio? Chi lo convertirà facendolo rinnegare il suo paganesimo e la sua falsa religione? Chi esorcizzerà l’intero popolo e l’intera cultura a cui appartiene?” Forse chi replica così al mito del buon selvaggio, senza aggiornare la qualifica, non ha considerato che il comando fu di “annunciare” la Lieta Novella, non venne imposto di convertire. O forse non sa che il cristianesimo si incultura nelle culture del mondo, non estirpa nessuno e non esorcizza interi popoli e intere culture.
Si può proseguire in questo mondo dell’intransigenza e scoprire quale sia il motivo del mito: “costituire il necessario fondamento delle ideologie avverse all’Occidente cristiano. La religione, infatti, è il cristianesimo, che distingue ed eleva l’uomo, gli affida e sottomette il resto del creato”. Sottomette… Questo testo è interessante perché afferma che “cristianesimo e rivoluzione industriale sono stati elementi decisivi” per creare un mondo ricco, sviluppato, pieno di progressi scientifici. Io sapevo che il cristianesimo ha duemila anni di storia, non due secoli, non vorrei si pensasse che da Cristo fino alla rivoluzione industriale il cristianesimo avesse perso tempo… Proseguendo nella lettura di questi testi si arriva a capire che c’è un nemico che li accomuna, è papa Francesco. In effetti i selvaggi lui li ha portati in Vaticano, in occasione del sinodo sull’Amazzonia. E non era da solo, c’erano con lui tantissimi vescovi, quelli che parteciparono con i “selvaggi” al sinodo sull’Amazzonia. E allora un intransigente annota: “Il politologo statunitense Rudolph Rummel calcoli demografici alla mano, però, riportò che nell’impero degli Aztechi, nel Messico pre-colombiano, fossero morti 1 milione di sudditi, sacrificati agli dei in grandi feste di sangue. In media ne venivano uccisi 1500 ogni anno. Gli Aztechi non erano affatto l’unico popolo sudamericano a seguire queste pratiche sanguinose. Anche gli Inca nel Perù facevano sacrifici umani a migliaia, 4000 solo in occasione della morte del re Huayana Capac.” Altrove si trova spiegato anche il perfido fine della riabilitazione di questi popoli indigeni, tra i quali come è noto non ci sono aztechi e gli inca hanno i loro ultimi discendenti nel piccolo popolo quechua: “Il risultato è però incontestabile: si tratta di impiantare, a nome del cattolicesimo e di una “teologia india”, i rudimenti pagani dei popoli nativi della foresta amazzonica, cancellando il millenario messaggio cristiano così come lo conosciamo”. Eppure gli indios amazzonici, per quanto si possa ritenere che siano selvaggi, hanno partecipato al sinodo da cattolici. Restano tali anche da convertiti?
Intanto due donne sono state vittime di violenza e questo dovrebbe contare per tutti noi. Trovare il modo per aumentare la consapevolezza dell’orrore che accade, per domandarci cosa significhi tutta questa perdurante violenza contro le donne e cosa noi possiamo fare per sconfiggerla, che venga da maschi italiani o da maschi di diverse origini, sempre da maschi viene e sempre contro le donne si esercita. Qui il buon selvaggio, purtroppo, non c’entra proprio nulla, c’entra invece, eccome, il cattivo selvaggio che alberga nel maschilismo, nella sopraffazione. Non si tratta di fatti cronaca, di notizie da rinchiudere in trafiletti o da utilizzare nell’agone politico. Nè può esserci indulgenza per quelle arretratezze che non hanno raggiunto la consapevolezza dei pari diritti tra maschi e femmine. Esistono, è vero: molto più di qui si può ritenere esportando il malessere tutto fuori di noi. Il mito del buon selvaggio non aveva nulla a che fare con quei selvaggi che stuprano una donna per strada o fracassano vetrine, o compiono altri atti vandalici. Il buon selvaggio era l’uomo che vive nella natura, fuori da stadi che noi definiamo civilazionali. Dunque potremmo proseguire facendo la storia dello schiavismo, della conquista delle Americhe, e qualcuno riprendendo quella sugli inca. Ma questo non farebbe un passo avanti a quelle due ragazze, che non hanno bisogno di esercizi di stile, ma di autentica umanità. E oggi umanità vuol dire rendersi conto che c’è un problema, che non ha nulla a che fare con Rousseau.
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