Qualcuno ricorda la strage di Peteano nella quale morirono alcuni carabinieri innocenti?
Era il 31 maggio 1972, nei pressi di Peteano, frazione di Sagrado in provincia di Gorizia.
Si trattò udi un’autobomba che fu fatta esplodere provocando la morte di tre uomini dell’Arma dei Carabinieri, il brigadiere Antonio Ferraro di 31 anni e i carabinieri Donato Poveromo e Franco Dongiovanni di 33 e 23 anni, mentre rimasero gravemente feriti il tenente Tagliari e il brigadiere Giuseppe Zazzaro.
Cosa era accaduto? La notte del 31 maggio una telefonata anonima giunse al centralino del pronto intervento della Stazione dei Carabinieri di Gorizia. A riceverla fu il centralinista di turno Domenico La Malfa. Il testo della comunicazione in lingua dialettale è il seguente:
“Senta, vorrei dirle che xè una machina che la gà due busi sul parabreza. La xè una cinquecento bianca, visin la ferovia, sula strada per Savogna“.
Sul posto segnalato giunsero tre gazzelle. Venne rinvenuta la Fiat Cinquecento bianca con i due buchi sul parabrezza, come aveva comunicato in dialetto l’anonimo informatore.
Tre carabinieri tentarono di aprire il cofano del mezzo; l’auto saltò in aria provocandone la morte, mentre altri due rimasero gravemente feriti.
Le indagini venero affidate al colonnello Dino Mingarelli, vecchio braccio destro del generale Giovanni De Lorenzo.
Mingarelli diresse subito la sua inchiesta verso gli ambienti di Lotta continua di Trento, ma le indagini non ottennero gli esiti previsti: dalla magistratura milanese giunse l’informazione secondo cui l’attentato era opera di n gruppo terrorista triestino di estrema destra, di cui faceva parte anche Ivano Boccaccio, militante ucciso in un tentato dirottamento di un aereo all’aeroporto di Ronchi dei Legionari nell’ottobre successivo.
L’informazione era stata data da Giovanni Ventura, nel frattempo arrestato per la strage di Piazza Fontana.
Tuttavia il colonnello scartò l’indicazione milanese.
Un ordine del Sid, il servizio segreto, infatti lo invitò a sospendere le indagini sul gruppo terrorista di estrema destra.
Il colonnello rivolse allora le attenzioni investigative verso sei giovani. Costruì minuziosamente l’accusa e li condusse a processo. Secondo il Mingarelli i sei giovani si sarebbero vendicati di alcuni sgarbi subiti dai carabinieri. L’ipotesi non era solida, ma il processo si aprì ugualmente.
Il movente costruito dall’alto ufficiale non convinse i giudici, che assolsero i sei giovani. Il piano costruito appositamente dal colonnello si ritorse contro di lui. I giovani indagati infatti, una volta liberi, denunciarono Mingarelli per le false accuse, dando inizio ad un nuovo processo. Stavolta il principale indiziato era proprio il colonnello.
Da quest’ulteriore indagine emerse l’evidente colpevolezza di Mingarelli, condannato poi per falso materiale e ideologico e per soppressione di prove (condanna confermata in Cassazione nel 1992 e altresì il reato di favoreggiamento aggravato dell’allora segretario dell’Msi Giorgio Almirante (poi amnistiato). Anche il generale Giovanbattista Palumbo (comandante della divisione Pastrengo di Milano) aveva partecipato al depistaggio per attribuire l’attentato ai gruppi di estrema sinistra.
Il coinvolgimento di Almirante
Fu poi Vincenzo Vinciguerra, con grande coraggio e con un gesto che voleva far chiarezza sulle ipocrisie di Stato e sulla strumentalizzazione dei neofascisti per logiche atlantiche a racontare la verità su Peteano assumendosene la responsabilità. L’altro autore – Carlo Cicuttini, quello che materialmente aveva fatto la telefonata anonima, nel frattempo era fuggito in Spagna, grazie alle protezioni dell’internazionale nera. Cicuttini era un dirigente del Msi friulano.
Non solo: fu lo stesso Vinciguerra a raccontare che nel 1982 il segretario del Msi Giorgio Almirante aveva sborsato la somma di 35.000 dollari a Carlo Cicuttini perché modificasse la sua voce durante la sua latitanza in Spagna mediante un apposito intervento alle corde vocali. Quella voce era stata identificata dopo un confronto con la registrazione di un comizio del Msi da lui tenuto. Ma – per sicurezza- la bobina con la registrazione era sparita dal fascicolo processuale.
Nel giugno del 1986, dopo la scoperta dei documenti che provavano il passaggio del denaro tramite una banca di Lugano, il Banco di Bilbao e il Banco Atlantico], Giorgio Almirante e l’avvocato goriziano Eno Pascoli vennero rinviati a giudizio per il reato di favoreggiamento aggravato verso i due terroristi neofascisti.
Nel prosieguo del processo Almirante usufruì dell’amnistia
Il racconto di Vinciguerra
Vincenzo Vinciguerra, molti anni dopo, così descrisse il ruolo del segretario del Movimento Sociale: “La strategia del “marciare divisi, per colpire uniti” è una strategia molto vecchia che il Msi ha sempre perseguito al massimo livello. Mi riferisco in modo particolare a Giorgio Almirante, che è stato veramente l’anima oscura, l’anima torbida del neofascismo italiano. Torbida come passato, torbida come comportamenti. Quindi questo neofascismo, che erano principalmente azioni di organizzazioni ), che però guarda caso fanno sempre riferimento al Msi, e, guarda caso, in tutte le aule di giustizia, ancora oggi, tutti gli imputati sono sempre rappresentati da avvocati del Msi, compresi anche i parlamentari del Msi, e poi i (vari) Fioravanti hanno il supporto politico e giornalistico del Msi. Perché ovviamente la chioccia non abbandona i pulcini, se i pulcini hanno salvaguardato l’immagine della chioccia. Cioè hanno escluso la possibilità che il Msi potesse in qualche modo essere coinvolto. Le pagine oscure del neofascismo italiano….