Dio ha una stile, fatto di “vicinanza, compassione e tenerezza”. E’ una delle affermazioni di papa Francesco che nel suo recente viaggio in Ungheria ha incontrato, come è uso fare in occasione delle sue visite all’estero, i gesuiti del posto e ha sostenuto che con i giovani occorre chiarezza, perché loro non tollerano il doppio linguaggio. Ma chiarezza non vuol dire aggressività, piuttosto richiede il citato stile di Dio.
E’ partito di qui il colloquio che viene pubblicato in queste ore da La Civiltà Cattolica e che ha visto il papa fare il punto su uno punto delicatissimo del suo passato, usato dai suoi avversari fin dai giorni della sua elezione a pontefice. Si tratta della vicenda di due gesuiti, Orlando Yorio e Francisco Jalics ( recentemente scomparso stroncato dal Covid), ai quali secondo il grande accusatore di Francesco, il giornalista Oracio Verbitsky, che si definisce un grande oppositore del regime golpista benché a quel tempo ha collaborato alla stesura di un volume governativo sull’aeronautica Argentina nella storia, l’odierno pontefice avrebbe ordinato poco prima del golpe del 1976 di lasciare il lavoro pastorale che svolgevano nelle baraccopoli di Buenos Aires, togliendogli la necessaria protezione ecclesiastica e che poi (quindi anche per sua colpa) vennero sequestrati dal regime.
Ora Francesco fa sapere che “un mese fa la Conferenza episcopale argentina ha pubblicato due volumi dei tre previsti con tutti i documenti relativi a quanto accaduto tra la Chiesa e i militari. Trovate tutto lì.” E definisce quella del suo coinvolgimento nella cattura dei due “una leggenda”. Ecco il punto centrale del suo racconto, soprattutto sulla sua deposizione al riguardo, quando si indagò al riguardo: “Alcuni del governo volevano «tagliarmi la testa», e hanno tirato fuori non tanto questo problema di Jálics, ma hanno messo in questione proprio tutto il mio modo di agire durante la dittatura. Mi hanno, quindi, chiamato in giudizio. […] È durato 4 ore e 10 minuti. Uno dei giudici era molto insistente sul mio modo di comportarmi. Io ho sempre risposto con verità. Ma, dal mio punto di vista, l’unica domanda seria, con fondamento, ben fatta, è venuta dall’avvocato che apparteneva al partito comunista. E grazie a quella domanda le cose si sono chiarite. Alla fine, fu accertata la mia innocenza. Ma in quel giudizio non si parlò quasi per nulla di Jàlics, ma di altri casi di persone che avevano chiesto aiuto. Io poi ho rivisto qui a Roma da Papa due di quei giudici. Uno insieme a un gruppo di argentini. Non lo avevo riconosciuto, ma avevo l’impressione di averlo visto. Io lo guardavo, lo guardavo. Tra me e me dicevo: «ma io lo conosco». Mi ha abbracciato e se n’è andato. L’ho poi rivisto ancora e si è presentato. Gli ho detto: «io merito cento volte una punizione, ma non per quel motivo». Gli ho detto di stare in pace con questa storia. Sì, io merito un giudizio per i miei peccati, ma su questo punto voglio essere chiaro. È venuto anche un altro dei tre giudici, e mi ha detto chiaramente che avevano ricevuto indicazione dal governo di condannarmi. Ma voglio aggiungere che quando Jálics e Yorio sono stati presi dai militari, la situazione che si viveva in Argentina era confusa e non era per nulla chiaro che cosa si dovesse fare. Io ho fatto quel che sentivo di fare per difenderli. È stata una vicenda molto dolorosa. Jálics era un uomo buono, un uomo di Dio, un uomo che cercava Dio, ma è stato vittima di un entourage al quale lui non apparteneva. Lui stesso l’ha capito. Era l’entourage della guerriglia attiva nel luogo dove lui andava a fare il cappellano. Ma nella documentazione che è stata pubblicata in due volumi voi troverete la verità su questo caso”.
Di pari importanza la risposta che il papa ha fornito a un gesuita che gli ha chiesto come favorire la riconciliazione tra la Chiesa e il moderno. Bergoglio ha ricordato che “il flusso della storia e della grazia va da giù in su come la linfa di un albero che dà frutto. Ma senza questo flusso tu rimani una mummia. Andando indietro non si conserva la vita, mai”.
Quindi, ricordato che è lo stesso San Paolo a dire che “noi non siamo di quelli che tornano indietro, il papa ha aggiunto con estrema precisione e fermezza: “Il pericolo oggi è l’indietrismo, la reazione contro il moderno. È una malattia nostalgica. Questo è il motivo per cui ho deciso che ora è obbligatorio ottenere la concessione di celebrare secondo il Messale romano del 1962 per tutti i nuovi preti appena consacrati. Dopo tutte le consultazioni necessarie, l’ho deciso perché ho visto che quella misura pastorale ben fatta da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI veniva usata in modo ideologico, per tornare indietro. Bisognava fermare questo indietrismo, che non era nella visione pastorale dei miei predecessori”.
Infine va dato conto del suo assenso alla domanda di un altro domanda di un gesuita che gli chiedeva come rapportarsi con chi commette abusi sessuali, affermando che è vero, essere una pastorale per relazionarsi con lui: “Condannarlo è da intendere come un atto di carità. C’è una logica, una forma di amare il nemico che si esprime anche così. E non è facile da capire e da vivere. L’abusatore è un nemico. Ciascuno di noi lo sente tale perché ci immedesimiamo nella sofferenza degli abusati. Quando senti che cosa l’abuso lascia nel cuore delle persone abusate, l’impressione che ne ricevi è tremenda. Anche parlare con l’abusatore ci fa ribrezzo, non è facile. Ma anche loro sono figli di Dio. E ci vuole una pastorale. Meritano una punizione, ma insieme anche una cura pastorale. Come farlo? No, non è facile. Hai ragione”. Il testo, di grande rilievo va letto nella sua interezza, questo è il link: https://www.laciviltacattolica.it/articolo/questo-e-lo-stile-di-dio/
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