Papa Francesco è arrivato in Mongolia al termine di un viaggio che lo ha visto sorvolare lo spazio aereo cinese, Paese con il quale il Vaticano non ha relazione diplomatiche. Pechino ha autorizzato il sorvolo in modo che così il papa potesse giungere a Ulaan Bataar senza dover sorvolare la Russia, un gesto di cortesia al quale Bergoglio ha immediatamente risposto inviando, come sempre accade, un telegramma di auguri e benedizioni al presidente cinese. Ma proprio da Pechino è giunta nelle stesse ore la notizia che il partito comunista cinese non ha autorizzato né vescovi né fedeli a recarsi dalla Cina in Mongolia per seguire il pellegrinaggio di Francesco. Una decisione che conferma la difficoltà dei rapporti tra Stato e fedi. E proprio questo è il primo tassello del viaggio di Francesco.
La Chiesa cattolica in Mongolia conta circa 1500 fedeli su un totale di 3 milioni di abitanti. Eppure il suo ruolo è importante per i numerosi progetti che gestisce davanti alle sfide che assillano questo enorme e poco abitato Paese: l’inquinamento, le carenze agricole, l’urbanizzazione galoppante, l’alcolismo e la violenza domestica. Le serre che la Chiesa è impegnata a costruire sono un esempio di cosa significhi il motto del viaggio: “sperare insieme”. Giungono dal altri Paese dell’Asia, di maggiore presenza cattolica, ma sono per tutti. Come i centro di assistenza all’infanzia. Dunque è un volto nuovo che si offre a una parte di mondo dove la Chiesa nell’Ottocento è parsa più amica dei colonizzatori che della popolazione locale. Ma sebbene richiesto e gradito, questo aiuto cattolico si scontra con le difficoltà per i missionari frapposte da vecchie regole dell’epoca dell’ateismo di Stato, quello che l’Unione Sovietica e la Cina, che ha grande influenza sul Paese, hanno imposto nei decenni passati.
Una contraddizione che forse il viaggio potrebbe aiutare a superare. Ed ecco allora il senso profondo che potrebbe emergere dalla visita: che rapporto si può immaginare dopo il passato colonialista e quello ateista tra Stato e fedi? Qui non si parla solo dei cattolici, ma anche della maggioranza dei tibetani che sono buddisti tibetani. Il buddismo è l’interlocutore religioso e qui emerge la prima sfida, che ha certamente molto da dire non solo alla Mongolia: questa sfida si chiama Cina. Infatti dire buddismo tibetano vuol dire parlare del Dalai Lama, e dei problemi che ciò comporta con Pechino, per la decisione con cui Pechino ha colonizzato il Tibet e tenta di cancellarne le radici religiose e buddiste.
La visita del Dalai Lama in Mongolia, nel 2016, fu un bruttissimo segno per Pechino e tutto si aggravò con la sua scelta di dichiarare la decima reincarnazione del Jebsundamba, capo spirituale del buddismo in Mongolia, da Dharmshala, sede del governo tibetano in esilio. Quell’atto ha ulteriormente allarmato Pechino.La Cina aveva appena tentato di nominarne uno ad essa gradito. Le protervie cinesi portano alla difesa del buddismo ma anche a sinofobia.
Tutto questo non rende sorprendente la decisione cinese di proibire a vescovi e fedeli di raggiungere il papa in Mongolia. Per Pechino non c’è grande differenza tra cattolici e buddisti, tutti devono guardare a Xi più che al papa o al Dalai Lama. E’ un’antica di fedeltà alla patria. E’ per questo che si è tentato di imporre una “Chiesa patriottica”, fedele al segretario generale e non al papa. Il passato pesa, se ne accennava con la solidarietà cattolica per le potenze coloniali e l’ostilità dello Stato a ogni fedeltà di “fede”. E invece ogni credente può essere un buon cinese, se si dimentica il passato coloniale e quello più recente dell’ateismo di stato. Il passato deve anche passare, se si impara a conoscersi.
E così la Santa Sede, come è noto, è alla prese con la difficile gestione dell’accordo provvisorio con Pechino che riguarda proprio la cruciale questione della nomina dei vescovi e della loro duplice fedeltà, al papa quali vescovi cattolici e a Pechino quali vescovi e cittadini cinesi. Il processo, vista la lentezza di Pechino, si può dire che sia appena cominciato. Si può dunque ben vedere, come ha scritto Jerome O’Mahony su The Tablet, che questo viaggio alla luce dell’esperienza maturata dal papa e dal suo segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, possa non solo tornare a parlare di una relazione antica tra cristianesimo e Mongolia, non solo otto-novecentesca, ma soprattutto disegnare i nuovi contorni di una relazione tutta nuova tra autorità religiose e governi in quella parte di mondo. Anche l’Europa ha conosciuto concordati e ingerenze governative nella vita ecclesiale, non c’è da menare vanti o teorizzare guerre di civiltà, piuttosto mettere a frutto le esperienze e la reciproca conoscenza, i cambiamenti che questa ha prodotto riducendo la diffidenza. Nei limiti del possibile, ovviamente. Dunque il dialogo tra cattolicesimo e le altre fedi presenti, a partire dalla maggioritaria, e lo Stato mongolo, è il punto da cui si partirà non solo per imparare a “sperare insieme” ma anche per migliorare questa “armonia”, diversa da quella fatta da acquiescenti silenzi cara a Pechino.
Siamo così al terzo capitolo, quello ambientale, un’emergenza drammatica in Mongolia, segnato da un inquinamento sopra le righe. Non si tratta solo di quell’idea di uno spazio, un ambiente legato alle sue tradizioni culturali tra due imperi, Russia e Cina, che hanno uniformato al sistema han ( il più grande gruppo etnico al mondo, maggioritario in Cina) e russo-sovietico spazi enormi come il Tibet e la Siberia. C’è questo, ma non solo questo: la Mongolia infatti è il secondo polmone del mondo. Se quello amazzonico è noto come il primo polmone del pianeta, il papa che sta aggiornando l’enciclica Laudato sì per la sua drammatica attualità sa certamente che hanno ragione i mongoli dicendo che “ la loro terra ancestrale è il secondo polmone del pianeta. Mentre la foresta amazzonica è fondamentale per assorbire le emissioni di anidride carbonica del mondo, l’Asia centrale filtra l’acqua che irriga il resto dell’Asia. In particolare, la Mongolia occupa sei diverse zone ecologiche, che si trovano al punto di incontro tra i flussi vitali europei e asiatici”.
Lo ha scritto su The Diplomat Michel Chambon che ha opportunamente concluso il suo articolo con queste parole: “ C’è una buona ragione perché Papa Francesco visiti la Mongolia. Grazie alla sua posizione geografica e alla sua storia unica, la Mongolia può svolgere un ruolo più centrale nelle sfide geopolitiche e ambientali della nostra epoca. Il secondo polmone del nostro pianeta deve essere sano e forte per ravvivare le conversazioni internazionali sul riscaldamento globale, la sovranità nazionale e l’economia globalizzata. Allo stesso tempo, la Santa Sede spera che le autorità mongole possano adeguare il loro approccio nei confronti delle istituzioni e del personale cattolico per favorire future collaborazioni”.
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