di Antonio Salvati
Tra i pochi successi che la comunità internazionale può vantare nel XXI secolo c’è senz’altro la lotta contro la pena di morte. Una battaglia per una giustizia capace sempre di rispettare la vita. Nel 1976 erano appena 16 i paesi che avevano abolito la pena di morte. Oggi ne contiamo 144 che non la usano più, 55 che la mantengono negli statuti, 20, 21, che la utilizzano davvero. È una straordinaria svolta della storia. Da diversi anni assistiamo ad un significativo decremento delle condanne a morte e delle esecuzioni. Tuttavia, dopo molti anni di contrazione progressiva del numero delle esecuzioni capitali registrate nel mondo, nel 2022 sono tornate a crescere, a causa di tre paesi. In Iran le esecuzioni sono salite da 314 nel 2021 a 576 nel 2022; le cifre sono triplicate in Arabia Saudita, da 65 nel 2021 a 196 nel 2022, mentre lo stato egiziano ha ucciso, dopo un processo, 24 persone. 883 nel 2022. Nei primi 8 mesi di quest’anno, 538. Siamo probabilmente all’inizio di una nuova contrazione. Ma siamo sempre a cinque volte meno di poco più di un decennio fa. Continua, inoltre, a crescere il numero degli stati con non la usa e non la vuole usare più. Nell’ultimo anno quattro Stati l’hanno abolita per tutti i reati: Kazakistan, Papua Nuova Guinea, Repubblica Centrafricana e Sierra Leone.
Oggi gli attivisti contro la pena di morte sono alle prese con nuovi termini. Nitrogen Hypoxia. L’azoto è un elemento vitale senza il quale non possiamo vivere. Ma, in grosse quantità avvelena, ossia toglie l’ossigeno, soffoca se nella miscela che respiriamo diventa più del 78 per cento. Questa modalità di avvelenare e soffocare – neanche utilizzata per uccidere gli animali, talmente ritenuta crudele – è il nuovo metodo di esecuzione reso legale in Alabama, Mississippi e Oklahoma. Non si è ancora mai fatto, ma tutto è in movimento perché avvenga per la prima volta il 25 gennaio. In tanti lottano e sperano perché la Corte Suprema dichiari la procedura unusually cruel e fermi tutto, in Alabama. Da lì – come molti ricorderanno – è partita, a Montgomery, la marcia verso i diritti civili dei neri d’America guidata da Martin Luther King, contro gli abusi della segregazione razziale e delle esecuzioni sommarie, dei linciaggi dei neri.
Da un orrore può nascere un nuovo rispetto della vita umana, sostiene Mario Marazziti della Comunità di Sant’Egidio. Kay Ivey, la seconda governatrice donna dello stato dell’Alabama ha fissato la data dell’esecuzione di Kenneth Eugene Smith. Democratica “conservatrice” diventata repubblicana, nota come credente fervente. Purtroppo, la governatrice, pur di fare restare in vigore la pena di morte in Alabama, ha fatto in passato approvare la norma che impedisce ai giudici, nei processi di pena capitale, di overruling, di andare oltre la legge: cioè, nel caso in cui la giuria popolare decida per una pena detentiva, anche a vita, ai giudici dell’Alabama è stato vietato di comminare lo stesso la pena capitale, una norma minima di civiltà. Ma non era una scelta a favore della vita. E’ stato il modo per mantenere in Alabama la pena di morte perché la Corte Suprema degli Stati Uniti stava per pronunciarsi sul fatto che il sistema dell’Alabama era così iniquo, per questo fatto, da essere incostituzionale, e quindi da dovere essere fermato.
Per questo, anche quest’ anno, la Giornata Mondiale delle Città per la Vita, le Città contro la pena di Morte, iniziata nel 2002 a Roma dalla Comunità di Sant’Egidio, davanti al Colosseo, e che adesso raccoglie 2.430 città del mondo, ha un’importanza particolare, non solo nella battaglia per un mondo senza più pena capitale. Ieri è iniziata la due giorni di mobilitazione di Sant’Egidio. Nella sala della Protomoteca in Campidoglio sono intervenuti il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, Mario Marazziti, coordinatore della campagna abolizionista con la Comunità di Sant’Egidio, il sindaco di Bangui, Emile G.R. Nakombo, Suzana Norlihan Binti Alias, avvocato e attivista contro la pena di morte dalla Malaysia. Oggi alle 18.00 manifestazione davanti al Colosseo, accanto all’Arco di Costantino. Interverranno Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio, Miguel Gotor, assessore alla Cultura di Roma Capitale, Fatime Zara Douga, sindaco di Ndjamena (Chad) e Gary Drinkard, ex condannato a morte dall’Alabama.
La situazione in cui viviamo ci dice che non esistono diritti conquistati ovunque e per sempre. E che per tutelare e affermare i diritti dell’uomo occorre un impegno costante e una continua ricerca dei mezzi più appropriati. Occorre avere il coraggio di guardare ai diritti umani non come a un elenco di valori o a un decalogo di buoni propositi, ma come conquiste del pensiero e della lotta per la dignità di ogni persona, non facili da realizzare e a volte in conflitto tra loro, eppure capaci di costituire un punto di riferimento essenziale per muoversi nel mondo complesso della globalizzazione. Sappiamo bene quali sono le difficoltà, quali sono gli ostacoli che finora hanno rallentato il cammino e che abbiamo ancora davanti. Le grandi convenzioni internazionali hanno dato risultati inferiori alle aspettative rispetto al loro intento di dare vita a un mondo riconciliato in cui, per citare Immanuel Kant, l’uomo è trattato sempre come un fine e non come un semplice mezzo.
Essere contro la pena capitale – ha sostenuto più volte giustamente Marco Impagliazzo – si traduce, insomma, in una vigilanza continua sulla società e su noi stessi: «un modo per sottrarsi al sonnambulismo che porta al disinteresse per la vita altrui o, addirittura, al desiderio di eliminazione dell’altro. (…) La sfida è svelenire un clima che chiede vendetta, più che giustizia; è dire “no” a una cultura dello scarto e “sì” a una cultura della riabilitazione. Si può – come già accade – mobilitarsi in difesa della vita dei condannati, riuscendo in alcuni casi a fermare l’esecuzione. Oppure si può tendere la mano alle migliaia di persone che sono nei bracci della morte, scrivendo loro lettere, alleviandone la durezza della detenzione, favorendo il loro percorso interiore, finendo per essere quell’ora d’aria che a tanti manca».
Città per la vita è un movimento che scaturisce dalla società civile e che parte dalle città, per aiutare gli stati e aumentare la fiducia nella giustizia. La città è il luogo della vita reale, dove si impara a vivere insieme, dove la sfida della violenza diffusa va vinta attraverso la riscoperta di valori comuni, di senso della comunità, capacità di identificarci nell’altro, offrendo e accompagnando nella vita in maniera non drogata, senza fentanyl e senza droghe del sabato sera, senza colle inebrianti. O si resta – afferma Marazziti – prigionieri della frammentazione, del tutti contro tutti, di una cultura violenta e narcisista, che non sa accettare il rifiuto e fa crescere la violenza contro le donne e il numero dei femminicidi. Non solo in Italia.
La pena di morte è una scorciatoia militare tutte le volte che non si sanno risolvere problemi sociali, è l’illusione di tagliare l’arto malato per fare vivere il corpo sano, che invece ha un sacco di problemi. È l’uso terribile della violenza al massimo livello, quella di un intero stato a nome di un’intera società contro un individuo. E vende come buona una idea di giustizia senza errore, infallibile al punto che si può permettere la pena irreversibile, cioè togliere la vita che non si può mai restituire in caso di errore, quando la giustizia infallibile non esiste e non può esistere. Questa consapevolezza ha accompagnato l’intero pontificato di Papa Francesco che ha portato a compimento il percorso dei pontificati del Novecento, che hanno depositato una pietra angolare per una giustizia che non violi mai la vita e la dignità umana, diventando intrinsecamente ingiusta, perché non si può togliere mai a qualcuno quello che non possiamo restituire e che non è nostro, la vita: «la pena di morte è sempre sempre inammissibile». Non si può essere credenti e utilizzare la pena di morte, sottolineano a Sant’Egidio. Non si può essere umani e infliggere la pena di morte. Non c’è mai legittima difesa tra uno Stato e una persona. Il mondo sta perdendo memoria di cosa è “essere e rimanere umani”. In tal senso, la mobilitazione mondiale che parte da Roma ormai da venti anni, ogni anno, per iniziativa della Comunità di Sant’Egidio, assieme a una città esperta di morte e di vita come Roma, ha un significato speciale. In un tempo di guerra. Quest’anno insieme alla presenza di alcuni sindaci di paesi africani, che hanno conosciuto e conoscono le ferite della guerra e della violenza.
Che questa mobilitazione sia l’occasione per chiedere a ciascuno di noi, a tutti i politici, di abbassare i toni, o non si saprà resistere ai pogrom contro interi quartieri come a Dublino. Siamo in tempo per umanizzare la vita nelle carceri e pensare al loro superamento, anziché immaginare nuove pene sempre più lunghe in luoghi che due volte su tre producono soltanto recidive, disumanizzano invece di far crescere il gusto di appartenere alla stessa comunità.