Pena di morte: la barbara esecuzione di Kenneth Smith e l'impegno per un mondo in pace e nella luce
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Pena di morte: la barbara esecuzione di Kenneth Smith e l'impegno per un mondo in pace e nella luce

Sono parole preziose e significative quelle che ci ha lasciato Kenneth Smith, 58 anni, 35 dei quali già passati nel braccio della morte, prima di essere ucciso dallo stato dell’Alabama.

Pena di morte: la barbara esecuzione di Kenneth Smith e l'impegno per un mondo in pace e nella luce
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28 Gennaio 2024 - 01.14


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di Antonio Salvati

Sono parole preziose e significative quelle che ci ha lasciato Kenneth Smith, 58 anni, 35 dei quali già passati nel braccio della morte, prima di essere ucciso dallo stato dell’Alabama, con il metodo – mai sperimentato prima in una esecuzione capitale – dell’asfissia da azoto assoluto inalato a forza, con una mascherina, al posto dell’aria: «L’Alabama ha fatto fare al mondo un passo indietro». E ha aggiunto significativamente: «Lascio questo mondo con amore, in pace e nella luce».

La pena di morte – lo sappiamo – abbassa tutta la società al livello di chi uccide. Una morte, innaturale, scientificamente organizzata. Per via di questa premeditazione contiene – come ci ha insegnato – Fëdor Dostoevskij – una tortura mentale in sé stessa, ancor prima di quella fisica. La pena capitale è sempre «unusually cruel», «è sempre inammissibile», come direbbe Papa Francesco, perché senza pietà, irreversibile, «perché mina la dignità inviolabile della persona umana». Inoltre, promette un’impossibile guarigione dal dolore per i familiari delle vittime e invece ne crea di nuove.

Non è ingenuo occuparci di pena di morte quando tante sono le violazioni della vita nelle guerre contemporanee? Non è fuori luogo occuparsi di Kenneth Smith mentre tanti innocenti muoiono in Medio Oriente e in Ucraina? Non lo hanno creduto e non lo credono le decine di migliaia di donne e uomini di ogni parte del mondo che hanno sostenuto la battaglia di umanità per salvare la vita di Kenneth Smith aderendo all’appello promosso dalla Comunità di Sant’Egidio.

I numerosissimi appelli arrivati in poche ore, seppure inascoltati da chi aveva il potere di risparmiargli la vita, rappresentano – si legge in un comunicato della Comunità di Sant’Egidio redatto dopo la morte di Kenneth – altrettante «luci nel buio di questo momento così doloroso per chi crede nell’umanità, nella possibilità di cambiamento e di riscatto di ogni uomo. In una parola, per chi crede nella vita».

Quasi avessero ascoltato e fatto propria la ferma convinzione di Etty Hillesum – giovane ebrea testimone della Shoah, morta ad Auschwitz il 30 novembre 1943 – quando scrisse che «una cosa, tuttavia, è certa: si deve contribuire ad aumentare la scorta di amore su questa terra. Ogni briciola di odio che si aggiunge all’odio esorbitante che già esiste, rende questo mondo più inospitale e invivibile».

In Italia, a Roma precisamente, a distanza di decenni dalla nascita delle Nazioni Unite, è stato approvato lo Statuto della Corte Penale Internazionale per i crimini contro l’umanità. Non prevede la pena capitale nemmeno per il crimine di genocidio. Contiene al suo interno un’idea semplice: anche il crimine più grande non può essere punito con la morte. Il fondamento della legge, di ogni legge è sempre la difesa della vita. Gli stati non possono aumentare, con un’altra morte, le violazioni della vita che vogliono esemplarmente punire.

A volte una luce basta a indicare la strada a chi cammina nel buio, recita il citato comunicato di Sant’Egidio. Che termina con un auspicio. Possano «le migliaia e migliaia di luci attrarre lo sguardo e toccare i cuori di tanti, perché insieme si possa rendere più umano questo nostro mondo e liberarlo per sempre della pena di morte».

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