Papa Francesco chiede di indagare per capire se a Gaza sia in atto un genocidio
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Papa Francesco chiede di indagare per capire se a Gaza sia in atto un genocidio

Francesco: "A detta di alcuni esperti, ciò che sta accadendo a Gaza ha le caratteristiche di un genocidio. Bisognerebbe indagare con attenzione per determinare se s'inquadra nella definizione tecnica formulata da giuristi e organismi internazionali"

Papa Francesco chiede di indagare per capire se a Gaza sia in atto un genocidio
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17 Novembre 2024 - 10.10


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Un brano del libro che Papa Francesco pubblica per il Giubileo 2025. Il volume “La speranza non delude mai. Pellegrini verso un mondo migliore”, a cura di Hernán Reyes Alcaide (Edizioni Piemme)



Riaffermo qui che «è assolutamente necessario affrontare nei Paesi d’origine le cause che provocano le migrazioni» (Messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2017). È necessario che i programmi attuati a questo scopo garantiscano che, nelle aree colpite dall’instabilità e dalle ingiustizie più gravi, si dia spazio a uno sviluppo autentico che promuova il bene di tutte le popolazioni, in particolare dei bambini e delle bambine, speranza dell’umanità. Se vogliamo risolvere un problema che tocca tutti noi, dobbiamo farlo attraverso l’integrazione dei Paesi di origine, di transito, di destinazione e di ritorno dei migranti. Di fronte a questa sfida, nessun Paese può essere lasciato solo e nessuno può pensare di affrontare la questione isolatamente attraverso leggi più restrittive e repressive, talvolta approvate sotto la pressione della paura o in cerca di vantaggi elettorali. Al contrario, così come vediamo che c’è una globalizzazione dell’indifferenza, dobbiamo rispondere con la globalizzazione della carità e della cooperazione, affinché le condizioni degli emigranti siano umanizzate.

Pensiamo agli esempi recenti che abbiamo visto in Europa. La ferita ancora aperta della guerra in Ucraina ha portato migliaia di persone ad abbandonare le proprie case, soprattutto durante i primi mesi del conflitto. Ma abbiamo anche assistito all’accoglienza senza restrizioni di molti Paesi di confine, come nel caso della Polonia. Qualcosa di simile è accaduto in Medio Oriente, dove le porte aperte di nazioni come la Giordania o il Libano continuano a essere la salvezza per milioni di persone in fuga dai conflitti della zona: penso soprattutto a chi lascia Gaza nel pieno della carestia che ha colpito i fratelli palestinesi a fronte della difficoltà di far arrivare cibo e aiuti nel loro territorio. A detta di alcuni esperti, ciò che sta accadendo a Gaza ha le caratteristiche di un genocidio. Bisognerebbe indagare con attenzione per determinare se s’inquadra nella definizione tecnica formulata da giuristi e organismi internazionali. Dobbiamo coinvolgere i Paesi d’origine dei maggiori flussi migratori in un nuovo ciclo virtuoso di crescita economica e di pace che includa l’intero pianeta. Affinché la migrazione sia una decisione veramente libera, è necessario prodigarsi per garantire a tutti una partecipazione equitativa al bene comune, il rispetto dei diritti fondamentali e l’accesso allo sviluppo umano integrale. Solo se questa piattaforma basilare verrà garantita in tutte le nazioni del mondo potremo dire che chi migra lo fa liberamente e potremo pensare a una soluzione davvero globale del problema. Penso soprattutto ai giovani, che emigrando provocano spesso una doppia frattura nelle comunità di origine: una perché esse perdono gli elementi più prosperi e propositivi e un’altra perché le famiglie si disgregano.

Per raggiungere questo scenario, tuttavia, dobbiamo compiere il passo preliminare fondamentale che consiste nel porre fine alle ineguali condizioni di scambio tra i diversi Paesi del mondo. Nei legami tra molti di essi si è instaurata una certa finzione che mostra la parvenza di un presunto scambio commerciale, ma in effetti consiste solo in una transazione tra filiali che saccheggiano i territori dei Paesi poveri e inviano i loro prodotti e i loro ricavi alle società madri nei Paesi sviluppati. Mi vengono in mente, per esempio, i settori legati allo sfruttamento delle risorse naturali del sottosuolo. Sono le vene aperte di quei territori (Eduardo Galeano, “Le vene aperte dell’America Latina”, Sur, 2021).

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Quando sentiamo questo o quel leader lamentarsi dei flussi migratori provenienti dall’Africa verso l’Europa, quanti di quegli stessi dirigenti si interrogano sul neocolonialismo che esiste ancora oggi in molte nazioni africane?

Ricordo che nel mio viaggio nella Repubblica Democratica del Congo, nel 2023, affrontai il problema del saccheggio odierno di alcune nazioni: «C’è quel motto che esce dall’inconscio di tante culture e tanta gente: “L’Africa va sfruttata”, questo è terribile! Dopo quello politico, si è scatenato infatti un “colonialismo economico”, altrettanto schiavizzante. Così questo Paese, ampiamente depredato, non riesce a beneficiare a sufficienza delle sue immense risorse: si è giunti al paradosso che i frutti della sua terra lo rendono “straniero” ai suoi abitanti. Il veleno dell’avidità ha reso i suoi diamanti insanguinati» (incontro con le autorità a Kinshasa, 31 gennaio 2023).

Sappiamo già che la «teoria della ricaduta favorevole» (discorso al II incontro mondiale dei Movimenti popolari, 9 luglio 2015) non funziona né all’interno dell’economia di un singolo Paese né nel concerto delle nazioni. Dobbiamo sostenere i Paesi periferici, in molti casi quelli di origine delle migrazioni, per neutralizzare le pratiche neocolonizzatrici che cercano di perpetuare le asimmetrie.

Una volta che il mondo si metterà in grado di portare avanti accordi per promuovere lo sviluppo locale di coloro che altrimenti finirebbero per migrare, è importante che i governanti di quei Paesi, chiamati a esercitare la buona politica, agiscano in modo trasparente, onesto, lungimirante e al servizio di tutti, soprattutto dei più vulnerabili.

Una volta accolti e poi protetti, i migranti vanno promossi. Nel chiedere che si aprano loro le porte, esorto anche a favorire il loro sviluppo integrale, a dare loro la possibilità di realizzarsi come persone in tutte le dimensioni che compongono l’umanità voluta dal Creatore.

Penso in particolare ai significativi passi avanti che vanno compiuti per favorire l’inserimento socio-lavorativo dei migranti e dei rifugiati, alle possibilità di lavoro che bisogna garantire anche ai richiedenti delle diverse tipologie di asilo e, parallelamente, a un’offerta consistente di corsi di formazione linguistica e di cittadinanza attiva, nonché di informazioni adeguate nella propria lingua. In Italia abbiamo l’esempio di un giovane sacerdote, don Mattia Ferrari, che non solo si impegna nelle azioni di salvataggio in mare, ma inoltre con il suo gruppo assicura un’integrazione sostenibile e sopportabile nel luogo di destinazione.

D’altro canto, una migrazione ben gestita potrebbe aiutare ad affrontare la grave crisi causata dalla denatalità in molti Paesi, soprattutto europei. È un problema molto serio e le persone che arrivano da altre nazioni possono contribuire a risolverlo, se le si integra pienamente e smettono di essere considerate cittadini di “seconda categoria”.

L’integrazione del migrante in arrivo è di fondamentale importanza. Corriamo il rischio che ciò che alcuni vedono come una salvezza nel presente diventi una condanna per il futuro. Saranno le prossime generazioni a ringraziarci se avremo saputo creare le condizioni per un’imprescindibile integrazione, e invece ci biasimeranno se avremo favorito solo sterili assimilazioni. Mi riferisco a un’integrazione che per caratteristiche sia paragonabile al poliedro, dove cioè ciascuno conserva le sue caratteristiche; è tutt’altro modello dall’assimilazione, che non tiene conto delle differenze e si attiene rigidamente ai propri paradigmi.

Il volto speranzoso di un nonno con suo nipote I giovani che oggi si attivano in tutto il mondo, indicandoci la strada, domani si siederanno a trasmettere quell’amore per la Terra alla prossima generazione. Noi, che oggi abbiamo già ben più che qualche capello grigio, abbiamo fallito nella gestione del creato e per questo apprezziamo lo spirito di iniziativa delle nuove generazioni, che non vogliono ripetere i nostri errori e si sforzano di lasciare la casa comune migliore di come l’hanno ricevuta.

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Ho seguito da vicino le massicce mobilitazioni degli studenti in diverse città e conosco alcune azioni con cui si battono per un mondo più giusto e attento alla salvaguardia dell’ambiente. Agiscono con preoccupazione, entusiasmo e, soprattutto, con senso di responsabilità verso l’urgente cambio di rotta che ci viene imposto dalle problematiche derivate dall’attuale crisi etica e socio-ambientale. Il tempo sta per scadere, non ce ne resta molto per salvare il pianeta e loro vanno, escono e si fanno valere. E non lo fanno solo per se stessi, lo fanno per noi e per chi verrà dopo.

Ci sono diversi esempi di come questo dialogo intergenerazionale può sfociare in un’alleanza applicata alla cura della casa comune. Penso ad alcuni progetti che si preoccupano di trasmettere il patrimonio di conoscenze e i valori della produzione alimentare locale che possedevano i nostri nonni, allo scopo di applicarli con l’aiuto dei mezzi di cui oggi disponiamo per fare passi avanti nella difesa e promozione della biodiversità alimentare. Li anima il desiderio di ritornare alla terra e di coltivarla, senza sfruttarla, con tecniche e metodi del tutto ecologici.

In un mondo sempre più frenetico e “usa e getta”, queste iniziative aiutano le persone a non perdere il legame con il cibo e con le tradizioni locali a esso collegate. Sono in controtendenza, ma non necessariamente regressive; piuttosto, mirano a recuperare il rapporto tra alimentazione e legami sociali. In Italia Carlo Petrini e il suo movimento che invita a uno slow food hanno fatto grandi passi in questa direzione. Oltre ai benefici che il mondo può trarre da questa nuova alleanza in termini di cura del pianeta, senza dubbio un incontro più assiduo tra giovani e anziani ridurrà la possibilità che riaccadano le tragedie belliche e umanitarie che hanno segnato il secolo scorso.

Chi non conosce la propria storia è condannato a ripeterla. Nessuno meglio dei nostri anziani può darci la testimonianza viva di alcuni eventi che non vogliamo ricapitino mai più sul nostro pianeta. Quell’Europa che da quasi tre anni è l’epicentro di questa Terza guerra mondiale a pezzi che stiamo vivendo, è il continente che nel secolo scorso ha passato trent’anni immerso in guerre fratricide e poi ha conosciuto dolorose separazioni di popoli fratelli quando è caduto il Muro di Berlino. Non può essere un caso che questi nuovi venti di guerra soffino nel Vecchio mondo allorché si assottigliano sempre più le file dei testimoni diretti della barbarie del totalitarismo o, peggio ancora, quando vengono emarginati, come pezzi da museo impossibilitati a addurre le loro preziose testimonianze – che molti portano addirittura sulla propria pelle – in alcuni dei dibattiti che oggi segnano l’agenda politica esattamente come poco più di cento anni fa.

La speranza ha sempre un volto umano Questo sarà il primo Giubileo contrassegnato dall’avvento di nuove tecnologie e si svolgerà nel pieno di un’emergenza climatica come quella che stiamo attraversando. Ogni giorno vediamo come la casa comune ci chieda di dire basta al nostro stile di vita che forza il pianeta oltre i suoi limiti e provoca l’erosione del suolo, la scomparsa dei campi, l’espansione dei deserti, l’acidificazione dei mari e l’intensificazione delle tempeste e di altri intensi fenomeni climatici. È il grido della Terra che ci interpella. Nelle Scritture, durante il Giubileo il popolo di Dio fu invitato a riposarsi dal lavoro abituale, per consentire alla Terra di rigenerarsi e al mondo di riorganizzarsi, grazie al declino dei consumi abituali. Ricordiamo le parole di Dio a Mosè sul monte Sinai: «Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è un giubileo: esso sarà per voi santo; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi» (Levitico 25, 10-12).

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Siamo chiamati a adottare stili di vita equi e sostenibili che diano alla Terra il riposo che merita, nonché mezzi di sussistenza sufficienti per tutti che non distruggano gli ecosistemi che ci sostengono. Già prima della pandemia ritenevamo necessario «riflettere sui nostri stili di vita e su come le nostre scelte quotidiane in fatto di cibo, consumi, spostamenti, utilizzo dell’acqua, dell’energia e di tanti beni materiali siano spesso sconsiderate e dannose» (Messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato, 1 settembre 2019). Ora aggiungiamo la necessità di una riflessione che comprenda anche il futuro delle nuove tecnologie e quali decisioni prenderemo, come umanità, affinché esse non siano incompatibili con un mondo di fraternità e di speranza.

Siamo chiamati a uscire dalla nostra comodità e a proporre soluzioni e alternative creative, affinché il pianeta rimanga abitabile e la nostra esistenza sulla Terra non corra pericolo. Nuovi problemi richiedono nuove soluzioni. Dobbiamo meditare sui dilemmi etici posti dall’uso onnipresente della tecnologia, facendo appello alla conoscenza integrata per evitare che continui a regnare il paradigma tecnocratico.

La dignità di ogni uomo e di ogni donna sia la nostra preoccupazione centrale al momento di costruire un futuro da cui nessuno resti escluso. Non si tratta più solo di garantire la continuità della specie umana su un pianeta sempre più minacciato, ma di fare in modo che quella vita sia rispettata in ogni momento. E se davanti alla questione ambientale non abbiamo saputo reagire in tempo, invece possiamo farlo di fronte a quella che viene percepita come una delle trasformazioni più profonde della storia recente dell’umanità, la penetrazione dell’IA in tutti gli ambiti della nostra vita quotidiana.

Da qui la chiamata a essere pellegrini di speranza. Mi piace l’immagine del pellegrino, «colui che si decentra e così può trascendere. Esce da sé, si apre a un nuovo orizzonte, e quando torna a casa non è più lo stesso, e nemmeno casa sua sarà più la stessa» (“Ritorniamo a sognare”, Piemme, 2020). Il cammino del pellegrino, inoltre, non è un evento individuale, ma comunitario, marca l’impronta di un dinamismo crescente che tende sempre più verso la croce, che sempre ci offre la certezza della presenza e la sicurezza della speranza. Mettersi in cammino «è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita» (Bolla del Giubileo 2025).

Ricordate quello che vi ho detto all’inizio: la speranza è la nostra àncora e la nostra vela. Facciamoci portare da lei per uscire in pellegrinaggio verso la costruzione di quel mondo più fraterno che sogniamo, in cui la dignità dell’essere umano prevale su ogni divisione ed è in armonia con la madre Terra.

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