Israele, con Ankara è vera crisi
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Israele, con Ankara è vera crisi

Da un lato la rottura diplomatica con Ankara, dall’altro il rancore dell’opinione pubblica verso i vertici di Tel Aviv potrebbero portare Israele all’isolamento.

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7 Settembre 2011 - 14.53


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di Giorgia Grifoni


Il rapporto Palmer è stato infine pubblicato:
ha condannato la violenza dell’operazione di arrembaggio della nave turca Mavi Marmara (del convoglio umanitario Freedom Flotilla) da parte delle forze israeliane a largo di Gaza il 31 maggio 2010. Ma al contempo ha tacitamente giustificato l’azione israeliana dichiarando legittimo il blocco navale imposto dallo stato ebraico a Gaza. E di conseguenza, anche se sproporzionata, l’azione israeliana sarebbe da considerarsi lecita.


E’ più di un anno che Ankara
pretende delle formali scuse da parte di Tel Aviv per quei 9 attivisti turchi uccisi dall’esercito israeliano. Il rapporto è stato pubblicato, ma le scuse – che secondo il premier Netanyahu demoralizzerebbero gli israeliani e verrebbero interpretate come segno di debolezza- non sono arrivate. Così la Turchia ha preso provvedimenti: espulsione dell’ambasciatore israeliano ad Ankara, sospensione totale dei rapporti militari e commerciali con Israele, volontà di portare la questione del blocco di Gaza alla Corte di giustizia internazionale dell’Aia e minacce di un prossimo viaggio del premier turco nella Striscia. Gli equilibri nella regione sono cambiati, e se dalle minacce si passasse ai fatti, la Turchia, storica alleata di Israele in Medio Oriente, potrebbe non stare più al gioco. La sua posizione fondamentale nello scacchiere regionale – come esempio di “democrazia islamica”, come unico interlocutore regionale dell’Iran, come fidato alleato degli Stati Uniti e come emergente potenza economica mediorientale – le permettono di mostrare i muscoli.

Le tensioni dell’ultimo anno tra i due stati sembrano ormai aver raggiunto un punto di rottura, e l’atteggiamento intransigente di Tel Aviv sulle scuse formali alla Turchia per l’arrembaggio della Mavi Marmara aggiunge un’altra complicazione all’agenda del governo Netanyahu.

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Alle prese con una forte contestazione sociale interna,
in attesa dell’allarmante richiesta d’indipendenza dello stato palestinese il prossimo 20 settembre alle Nazioni Unite e con un’insolita prudenza degli Stati Uniti nel prendere apertamente le parti dell’alleato mediorientale, Israele sembra essersi alienato anche i favori del vecchio partner meridionale, l’Egitto. L’uccisione di cinque soldati egiziani da parte dell’esercito israeliano come risposta all’attacco terroristico subito a Eilat il 18 agosto scorso ha scatenato violente manifestazioni anti-israeliane al Cairo. Qui le scuse di Tel Aviv sono arrivate, ma il risentimento popolare non è certo diminuito, tanto che sulla stampa egiziana cominciano ad apparire chiare manifestazioni di ostilità –Netanyahu rappresentato a mo’ di Hitler, con i celebri baffetti e la svastica sulla divisa, apparso sul settimanale “October”. In misura precauzionale, intorno all’ambasciata israeliana al Cairo è iniziata la costruzione di un muro difensivo.

Il popolo egiziano, che ha sempre guardato con rancore al trattato di pace firmato dall’allora presidente Sadat con Israele nel 1979, è diventato ora attore principale del cambiamento politico del paese. La maggior parte dell’opinione pubblica egiziana vorrebbe una revisione del trattato di pace, che considera penalizzante soprattutto per la questione del Sinai. La penisola, occupata da Israele nel 1967, è stata restituita all’Egitto solo dopo la firma degli accordi di Camp David. Le clausole della restituzione implicavano una scarsa presenza militare egiziana nella zona -750 soldati per 61.000 km2- che ne ostacolavano la piena sovranità egiziana e la rendevano una sorta di no man’s land alla mercé di qualsiasi attività clandestina. Dopo la rivoluzione di gennaio, il Sinai è stato teatro di alcune azioni di sabotaggio dell’Arab Gas Pipeline – il gasdotto che dall’Egitto rifornisce Israele, Giordania e Siria- perpetrate da gruppi spesso individuati dalla stampa come jihadisti, militanti palestinesi, qaedisti, salafiti, trafficanti di armi e pure beduini. Poi c’è stato l’attentato di Eilat, e Israele ne ha attribuito la causa al “vuoto di potere” che regna al Cairo, dimenticando improvvisamente le ondate di attentati nelle località turistiche del Mar Rosso avvenute quando il potere era ancora nelle mani di Mubarak. D’accordo con Tel Aviv, il Cairo ha quindi potuto raddoppiare la sua presenza militare nel Sinai, considerato tutto ad un tratto un luogo sguarnito.

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Anche la questione della vendita di gas a Israele
, concordata a Camp David, è tema di dibattito nell’opinione pubblica: secondo molti il prezzo sarebbe troppo vantaggioso per Israele. Altre tensioni tra i due vicini deriverebbero dal nuovo atteggiamento egiziano verso i palestinesi: con l’apertura parziale del valico di Rafah lo scorso maggio , il governo di transizione egiziano ha rotto il blocco che, quasi ininterrottamente da quattro anni, soffocava la popolazione della Striscia di Gaza. Come se non bastasse, il ministro degli esteri Mohamed Kamel Amr, durante il cinquantesimo anniversario della nascita del fronte dei paesi non-allineati a Belgrado, ha esortato le ex-repubbliche jugoslave a votare per l’indipendenza della Palestina il prossimo 20 settembre.


Infine, il ruolo centrale dell’Egitto
come iniziatore di un nuovo Medio Oriente non è da sottovalutare. Folle di manifestanti ai quattro angoli del mondo arabo hanno inneggiato al paese dei faraoni come a un esempio da seguire, ed è chiaro che i loro futuri governi non saranno immuni dalla sua influenza. Accanto al ruolo esemplare dell’Egitto, c’è quello economico e strategico della Turchia, interlocutore prezioso per il Medio Oriente che verrà. Non è da escludersi un’alleanza tra i due paesi, storici punti di riferimento del Mediterraneo sud-orientale: è già previsto un meeting fra i due governi alla fine del mese e, stando alle parole del primo ministro turco Erdogan, Ankara deciderà dopo i colloqui con il Cairo se organizzare o meno una sua visita nella Striscia di Gaza.

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Se non vuole trovarsi di nuovo isolato
, Israele dovrà scendere a qualche compromesso: che si tratti di scuse da presentare ad Ankara, o di maggiore attenzione nei confronti del Cairo, Tel Aviv dovrà, come sostiene il segretario generale della Lega Araba Amr Moussa – “cambiare il suo modo di agire. Gli israeliani non possono prendere con leggerezza le altre potenze. Non dovrebbero prendere con leggerezza la Turchia e non dovrebbero prendere l’Egitto con leggerezza. E lo ripeto – ha aggiunto -. Non dovrebbero prendere l’Egitto con leggerezza”. Altrimenti gli resterà solo la Giordania, che visti i venti di rivoluzione degli ultimi mesi non è una gran sicurezza. Ma è meglio di niente.

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