di Cecilia Dalla Negra
Sovraffollamento, isolamento, disoccupazione sull’orlo dell’80%, povertà diffusa. Una situazione sociale al collasso, in declino costante dal 2007. Se la Striscia di Gaza – assediata dal cielo, dalla terra e dal mare – sembra vivere in assenza di prospettiva, conosce però innumerevoli forme di resistenza civile, e una popolazione capace di non arrendersi e organizzarsi per aggirare occupazione e controlli, ricostruire dalle macerie, andare avanti. Di fornire, dal basso, quelle forme basilari di assistenza e cooperazione che l’assedio israeliano vorrebbe negare. È in questa Gaza – 1 milione e mezzo di persone concentrare in 360 km quadrati, per una tra le aree più densamente popolate del mondo – che le donne si sono auto-organizzate, dando vita a centri di sostegno capaci di rispondere ad alcune esigenze primarie, ma anche di lavorare sul livello di consapevolezza femminile all’interno di una società in cui rivendicare spazi è tutt’altro che semplice. Nati in seguito alla prima Intifada per fornire assistenza sanitaria, migliorare i livelli di salute femminile e lavorare contro una violenza di genere diffusa, i centri hanno rappresentato dopo l’operazione militare “Piombo Fuso” e la stretta intorno ai confini della Striscia un argine fondamentale al declino delle condizioni economiche e sociali della popolazione. Feryal Thabet e Mariam Shaqqura ne dirigono due, avviati con la collaborazione di Aidos (Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo), della Red Crescent Society for the Gaza Strip e dell’Associazione femminile Cultura e Libero pensiero di Gaza, in alcune tra le aree più difficili della zona: il campo profughi di el Bureij e quello di Jabalia, pochi chilometri quadrati e migliaia di persone. Le incontriamo a Roma, dove sono arrivate dopo lunghe attese al valico di Rafah, solo per uscire dalla Striscia. “Rivendicare uguaglianza e parità quando non ci sono riconosciuti neanche i fondamentali diritti umani non è facile”, raccontano. È una storia di resistenza civile e quotidiana la loro, che lottano per fornire assistenza di base ad una popolazione stremata dall’assedio, all’interno di una società patriarcale che non sempre comprende il loro lavoro.
In cosa consiste l’attività che i vostri centri svolgono a Gaza?
I nostri obiettivi sono principalmente quelli di sviluppare le condizioni di salute generali della popolazione attraverso un approccio comprensivo, che include sia l’assistenza medica, psicologica e sanitaria alle donne, che quella legale e sociale. Se è vero che le donne rappresentano una delle categorie maggiormente colpite dagli effetti dell’occupazione, lavoriamo anche contro la loro discriminazione all’interno della società. Organizziamo diversi laboratori e attività, cercando il coinvolgimento dei leader delle nostre comunità, perché accettino e rispettino il lavoro che svolgiamo. Non sempre è scontato. Vorremmo riuscire a sviluppare una maggiore consapevolezza, sia individuale che collettiva, cambiando approccio verso la vita quotidiana.
Perché questo lavoro sul territorio è così importante?
Perché viviamo una situazione estremamente complessa, aggravata da numerosi fattori. Prima di tutto l’assedio imposto da Israele, che ha un impatto negativo su tutti gli aspetti della nostra vita. Ci sono problemi pratici come l’assenza di energia elettrica, di medicinali e di risorse per fornire l’assistenza medica e sociale basilare alla popolazione. Ma tutto questo ha anche un effetto devastante a livello psicologico. Quando una società è costretta a chiudersi su se stessa i fattori di deterioramento e rischio per le categorie più esposte aumentano, e le prime a farne le spese sono le donne. La loro condizione negli ultimi anni è peggiorata sia dal punto di vista sanitario – con un aumento delle patologie tipicamente femminili, degli aborti e del livello di salute – sia da quello psicologico e sociale. A causa del conflitto interno tra Hamas e Fatah non abbiamo indicatori ufficiali, ma il peggioramento è tangibile. Su tutto questo noi cerchiamo di intervenire.
Mutamenti sociali importanti che hanno modificato anche il ruolo della donna. In che modo?
Radicalmente: se le stime ufficiali parlano di un’occupazione femminile ferma all’11%, l’assedio ha prodotto una situazione di mancanza d’impiego anche maschile molto diffusa, così come il tasso di detenzioni di lungo periodo. Questo ha comportato un mutamento sociale importante: sono le donne e i bambini a dover trovare fonti di sussistenza, accettando forme di lavoro subordinate. Le vecchie dinamiche di genere si sono spezzate, l’uomo ha perso la propria centralità familiare con un aumento della conflittualità interna e della violenza domestica. D’altra parte le donne stanno acquisendo maggiore consapevolezza delle proprie capacità e dei propri diritti. Sono aumentati i divorzi, ma anche le iscrizioni femminili all’università: hanno capito che il loro posto non è necessariamente ai fornelli, che hanno la capacità di contribuire allo sviluppo del nucleo familiare.
Rivendicare diritti di genere in un paese che non è riconosciuto come tale è ancora più complesso?
Naturalmente, perché ancor prima dobbiamo affrontare la questione della rivendicazione di un’identità collettiva. Abbiamo tre livelli di conflitto: quello con Israele, quello interno al nostro governo e quello con una società di stampo patriarcale che non riconosce parità e uguaglianza. Come si può migliorare la condizione femminile se tutto intorno a te è instabile? Se il governo non controlla neanche i suoi confini nazionali e tutto il settore economico e sociale è in crisi, come si può lottare per l’indipendenza femminile? Viviamo una condizione contraddittoria quotidiana: abbiamo Facebook, ma siamo costrette a cucinare con la bombola che usavano le nostre nonne. Non siamo libere di scegliere neanche cosa comprare al mercato, perché non sappiamo quali merci Israele farà entrare. È un compromesso continuo, e molte cose scontate altrove qui non lo sono.
Ecco perché il lavoro nei nostri centri è una forma di resistenza quotidiana. Ognuna di noi tenta di migliorare la condizione dei diritti delle donne come esseri umani, che in quanto tali devono essere considerate al pari dell’uomo, avere una rappresentanza dignitosa negli organi decisionali e incidere con la propria visione sulla politica, sull’economia, sulla società. Sia chiaro che rifiutiamo di essere considerate solo vittime: la cosa più bella del nostro popolo è la sua capacità di andare avanti nonostante le difficoltà, di trovare soluzioni laddove sembra che non ce ne siano. Le donne di Gaza hanno la capacità di lottare per i propri diritti contro tutte le ingiustizie sociali, nonostante l’occupazione, l’assedio e le divisioni interne.