di Emma Mancini
Centinaia di automobili hanno oggi atteso per ore di attraversare il checkpoint di Qalandiya, tra Ramallah e Gerusalemme, e il “container” checkpoint che divide Betlemme da Gerusalemme. Due blocchi, a Sud e al centro, la cui chiusura spezza ulteriormente la continuità del territorio palestinese e intensifica restrizioni al movimento dei residenti della Cisgiordania.
Secondo testimoni, centinai di veicoli, soprattutto taxi, sono stati costretti ad attendere per delle ore di entrare in Israele. Molti i lavoratori che sono arrivati tardi sul posto di lavoro, visto che i due checkpoint sono le uniche vie d’accesso possibili verso Gerusalemme e quindi lo Stato di Israele. A Qalandiya, l’esercito israeliano ha utilizzato blocchi di cemento per impedire il passaggio del traffico.
Insomma, prove generali in vista del 23 settembre, che seguono ad altre misure prese dalle autorità israeliane e volte a soffocare sul nascere eventuali manifestazioni e marce palestinesi dopo il discorso che il presidente dell’Autorità Palestinese, Abu Mazen, terrà di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Nelle scorse settimane, l’esercito è stato impegnato nell’addestramento dei coloni, dotati di gas lacrimogeni e bombe sonore per disperdere gruppi di palestinesi che temono possano avvicinarsi agli insediamenti in Cisgiordania. Inoltre, fonti militari hanno annunciato che le colonie saranno circondate e protette dai militari.
La radio pubblica israeliana ha inoltre riportato la notizia che tre battaglioni di riservisti (circa 1500 soldati) sono stati mobilitati e messi in allerta, pronti ad intervenire nel caso di necessità. A preoccupare di più è proprio la reazione che Tel Aviv sta preparando, quando da parte palestinese sembra che la situazione sia calma, tra l’attesa e la disillusione. I palestinesi non sembrano affatto convinti che una simile iniziativa possa concretamente portare a qualche cambiamento sul terreno, confusi dall’atteggiamento che l’Autorità Palestinese ha mostrato in questi mesi.
Soltanto ieri Abu Mazen, dal suo quartier generale a Ramallah, ha parlato al popolo di Palestina in un messaggio televisivo, spiegando che il 23 settembre, esattamente tra una settimana, si presenterà all’Assemblea Generale per il discorso ufficiale e subito dopo invierà direttamente al Consiglio di Sicurezza la richiesta di adesione all’Onu come Stato membro.
Insomma, la debole e traballante Autorità Palestinese si vuole giocare il tutto per tutto: “È un nostro legittimo diritto – ha detto ieri Abu Mazen – quello di chiedere l’adesione completa dello Stato di Palestina alle Nazioni Unite, per mettere fine ad un’ingiustizia storica attraverso l’ottenimento di libertà e indipendenza, come ogni altro popolo sulla terra. Uno Stato palestinese entro i confini del 4 giugno 1967”. Con Gerusalemme Est come capitale.
Se all’Assemblea i voti positivi dovrebbero superare i 2/3 richiesti dall’ordinamento interno (e quindi portare all’adesione della Palestina come Stato non membro, osservatore permanente), al Consiglio difficilmente la richiesta potrebbe passare: il veto degli Stati Uniti è dato per certo.