Barack vada a scuola da Bill
Top

Barack vada a scuola da Bill

Su due temi di vitale importanza, Israele e pena capitale, Obama si è mostrato cauto, contraddittorio, reticente, a differenza di Clinton.

Barack vada a scuola da Bill
Preroll

redazione Modifica articolo

24 Settembre 2011 - 23.00


ATF
di Guido Moltedo

Su due grandi temi che dividono l’opinione pubblica americana – Israele e pena capitale – e sui quali Obama si è mostrato cauto, contraddittorio, reticente, Bill Clinton parla senza veli, senza autocensure, con una franchezza e un’adesione ai fatti duri che piacerebbe vedere nei politici d’oggi, presidente degli Usa compreso.

Si obietterà che Clinton non è un presidente in carica, può consentirsi una libertà che il suo successore democratico – dopo il doppio mandato di Bush – non può permettersi. Il fatto è che Bill, anche se non riveste più incarichi formali, ha un’autorità e un’autorevolezza elevatissime, e riconosciute anche dai suoi avversari, che egli sa amministrare con la gravitas di un capo dell’esecutivo in carica, né più e né meno.

Perché Clinton non è Jimmy Carter, che pure assume spesso posizioni scomode e irrituali, prende iniziative controcorrente, ma è considerato un outsider, talvolta anche molto utile all’amministrazione (si pensi alle sue missioni in paesi nemici degli Usa), un personaggio un po’ bizzarro che di tanto in tanto fa notizia.

Carter è sinonimo, con molta e ingenerosa esagerazione, di leader sconfitto, di politico perdente. È un presidente da dimenticare. Che i democratici tengono alla larga (Obama, nei suoi momenti più bui è, appunto, associato a Carter, presidente incumbent sconfitto da Reagan). Clinton no, è il presidente che, uscendo dalla Casa Bianca, ha lasciato in eredità al nuovo inquilino, quell’irresponsabile scialacquatore di George W. Bush, una situazione finanziaria rosea e promettente. Per questo, a dispetto dell’affaire Lewinski, resta un grande presidente.

Leggi anche:  Israele-Palestina: la soluzione dei due Stati, la più grande vittima del 7 ottobre

E oggi è un grande ex presidente. Le sue parole hanno un peso enorme. S’impongono nel discorso pubblico. Così, a proposito del gioco d’interdizione israeliano nei confronti delle aspirazioni palestinesi, è stato particolarmente severo con gli attuali dirigenti dello stato ebraico, Bibi in testa.
Netanyahu, – ha detto l’architetto degli accordi di Oslo, 1993 – non sembra interessato a raggiungere un accordo che finalmente metta fine al conflitto in Medio Oriente. Intervistato daForeign Policy, ha spiegato: «Gli israeliani hanno sempre chiesto due cose ma quando le hanno avute non sembrava che Netanyahu fosse interessato». Bibi, ragiona ancora Clinton, ha sempre voluto «un governo palestinese che fosse un partner per la pace, e non ci sono dubbi, e questo il governo Netanyahu lo ha detto, che questo è il migliore governo palestinese mai avuto in Cisgiordania».

Anche sul fronte della seconda richiesta, il riconoscimento da parte dei paesi arabi, per Clinton Israele era sul punto di ottenerla, «con il re saudita che aveva cominciato a raccogliere tutti i paesi arabi per dire agli israeliani “se lavorate con i palestinesi vi daremo non solo immediatamente il riconoscimento, ma anche una partnership politica, economica e di sicurezza”». «Questo è un accordo enorme, ed è quello che è successo, tutti gli americani devono saperlo», continua Clinton difendendo gli sforzi compiuti in questi due anni da Barack Obama e dal dipartimento di stato guidato da Hillary.

Leggi anche:  Israele, il prezzo sempre più alto della guerra: il default economico e psicologico

«Qualcuno veramente cinico crede che la continua richiesta del governo di Netanyahu di negoziati sui confini significhi che non vuole rinunciare alla Cisgiordania», sostiene ancora l’ex presidente. E aggiunge: i palestinesi ora sarebbero pronti ad accettare l’accordo di pace che nel 2000 Arafat lasciò cadere. «Ora i palestinesi hanno esplicitamente detto in più di un’occasione che se Netanyahu accettasse l’accordo che gli è stato offerto in passato, il mio accordo, lo prenderebbero».

Indubbiamente, Clinton rivendica e valorizza la sua iniziativa storica, ma lo fa– e qui c’è un altro dato politico rilevante – alla vigilia dell’intervento di Abu Mazen alle Nazioni Unite. Con la stessa franchezza, Clinton sostiene un’altra posizione scomoda. Sulla pena di morte.

Mentre riprendono in modo preoccupante le esecuzioni capitali, in un’America incattivita e vendicativa, l’ex presidente avverte che «il sistema giudiziario americano deve tener conto del fatto che il test del Dna può evitare di condannare a morte un innocente».

Può essere un’ovvietà, ma evidentemente non lo è, e comunque allude a uno dei temi cari al fronte anti-pena di morte, cioè all’alta frequenza di casi di innocenti finiti nelle mani del boia.
Dimagrito, tonico, ottimista come sempre, Clinton dispensa dunque lezioni di politica, facendo sapere che non sempre essa è sinonimo di cinico calcolo, ma, al contrario, è capacità di chiamare le cose con il loro nome e di farlo nel momento giusto.

Native

Articoli correlati