Israele. Exodus all’incontario
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Israele. Exodus all’incontario

Gli Israeliani che emigrano superano il numero degli immigrati, nonostante gli sforzi dello Stato ebraico per reclutare nuovi cittadini.

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7 Novembre 2011 - 09.10


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di Ika Dano

Non è mai stato un segreto, quello dell’ideologia sionista alla base dello Stato ebraico: creare e mantenere una maggioranza ebraica. Da Shabtai Teveth, uno dei pochi biografi ufficiali, viene citato già nel 1917: “Entro i prossimi vent’anni, dobbiamo avere una maggioranza ebraica in Palestina”.

A distanza di decenni mantenere questa maggioranza si prospetta complicato. Già due anni dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1948, venne promulgata la “legge per il ritorno”, che prevedeva il conferimento automatico della cittadinanza a qualsiasi ebreo del mondo, indipendentemente dalla discendenza materna o paterna.

Dalla fine del diciannovesimo secolo ad oggi, sono state cinque le ondate di immigrazione, dette Aliya (ascesa), che secondo l’Ufficio Centrale israeliano di Statistica hanno portato 2.8 milioni di migranti in Israele. La maggioranza arriva rispettivamente dalle ex-repubbliche sovietiche, dall’Africa (soprattutto dall’Etiopia), dall’Asia e dal continente americano.

Attraverso le diverse Agenzie Ebraiche sparse nel mondo, lo Stato recluta nuovi cittadini. Germano, argentino diventato cittadino israeliano sei anni fa, ci racconta di come, dopo la laurea in informatica, a caccia di una chance per il futuro come tanti, si è imbattuto nella proposta di un suo professore: l’Aliya, la possibilità di immigrare in Israele con il biglietto d’aereo pagato, proseguire l’università con una borsa di studio e abitare i primi sei mesi gratis. Gli è bastato provare all’agenzia israeliana Amia che sua nonna era stata sepolta in un cimitero ebraico per partire. Dopo due mesi era in Israele.

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Il primo bilancio negativo dell’immigrazione verso Israele rispetto all’emigrazione da Israele, viene pubblicato nel 2007 dal più importante quotidiano israeliano Yediot Ahronot: si parla per la prima volta di ben 20.000 cittadini israeliani sulla via dell’emigrazione contrapposti ai 14.400 nuovi immigrati. Uno squilibrio registrato solo dopo la Guerra del Yom Kippur. Oggi, il numero di Israeliani che fanno richiesta di un secondo passaporto, americano o europeo, é in crescita. Il fenomeno é forte sopratutto tra giovani laureandi, artisti e Israeliani originari dei Paesi dell’Ex- Unione Sovietica.

Le motivazioni per lasciare il Paese sono disparate, ma non sembrano riconducibili solo alla crisi economica, che ha risparmiato Israele sicuramente più di altri Paesi europei. Il giornalista israeliano Gideon Levy, la chiama: “ansia a livello sia personale che nazionale”.

Il secondo passaporto sembra diventato l’assicurazione per poter lasciare una società intrisa di paura, creata e alimentata dallo Stato. Paura dei Paesi ostili che lo attorniano, paura del nemico arabo, che per decenni in realtà, é stato l’elemento di coesione di una società eterogenea e stratificata.

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Gideon Levy riassume lapidario: “Passaporti? Se i Palestinesi avessero già un passaporto vero e proprio, forse gli Israeliani non avrebbero bisogno del secondo”.

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