In Tunisia un unico orizzonte possibile
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In Tunisia un unico orizzonte possibile

Nell’analisi di Mario Sei da Tunisi, le ragioni del successo della formazione islamista, frutto anche dei limiti delle altre forze politiche.

In Tunisia un unico orizzonte possibile
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10 Novembre 2011 - 10.34


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Per comprendere il grande successo del Nahda e la disfatta delle maggiori forze laiche senza cadere in superficiali cliché, di cui il più falso sarebbe la conferma della tesi secondo cui l’islamismo è il solo orizzonte politico in cui riescono a muoversi i popoli musulmani, è necessario ricordare alcuni fondamentali passaggi che dopo la fuga di Ben Ali hanno condotto a queste elezioni.

La decisione di indire delle elezioni per un’assemblea costituente, annunciata dal presidente della Repubblica il 3 marzo, fu la necessaria mediazione, in realtà, di fronte a una piazza in rivolta che da due mesi pretendeva dei chiari segnali di rottura con gli apparati e gli uomini più compromessi del regime. Nonostante il sistema repressivo continuasse a funzionare e a fare vittime, la pressione sociale obbligò Mohamed Ghannouchi, primo ministro con Ben Ali dal 1999 e a capo del governo di transizione dopo il 14 gennaio, inizialmente a sostituire i ministri da lui proposti con figure indipendenti e poche settimane dopo a dimettersi, per calmare la rabbia scatenata dopo aver nominato come nuovi governatori delle regioni quasi tutti uomini del regime. Il movimento di rivolta, espresso da due successive occupazioni della Kasba, la piazza del governo a Tunisi, in un primo momento era animato in modo spontaneo da comitati di cittadini, sindacalisti di base e associazioni della società civile, in particolare l’influente ordine degli avvocati. Dall’esperienza della Kasba nacque poi un Consiglio di Protezione della Rivoluzione che riunì oltre alla società civile anche forze politiche fin allora illegali, come Nahda e molti partiti della sinistra radicale che apparivano per la prima volta sulla scena pubblica, anche se molti dei loro militanti avevano individualmente partecipato alle rivolte. In seguito alle dimissioni di Ghannouchi, avvenute dopo la repressione di un’imponente manifestazione a sostegno della Kasba costata la vita a 5 ragazzi, il Presidente della Repubblica annunciò che, come richiesto dalla piazza, insieme alle elezioni della costituente, al Consiglio veniva riconosciuto il diritto d’osservazione e di veto sui lavori del governo. Per questo motivo era stato creato un organismo ad hoc – con un nome che mai nessuno pronunciò per intero: Alta Istanza per la realizzazione degli obiettivi della rivoluzione, della riforma politica e della transizione democratica – che però avrebbe incluso anche esponenti di partiti non rappresentati nel Consiglio. Le forze politiche esterne al Consiglio degne di credibilità e di un certo peso erano sostanzialmente due, ovvero il PDP e il PDM, entrambe con una lunga storia d’opposizione anche se nei margini della legalità di regime.

Da quel momento, una volta attivata la dinamica elettorale, cambiò completamente la natura del conflitto politico: dalla piazza e dalla mobilitazione collettiva, solidale al proprio interno e rivolta contro l’apparato di regime, lo scontro diventa quello tra forze e partiti distinti. Assenti fino allora dalla scena pubblica, i partiti assumono il ruolo d’attori principali mentre le organizzazioni della società civile, comprese quelle nate dopo il 14, perdono la loro spinta propulsiva. Integrato nell’Alta Istanza, il Consiglio si dissolse, Nahda iniziò la propria campagna elettorale e le altre forze politiche presenti, perlopiù partiti e formazioni di sinistra, formarono un polo comune, il Fronte 14 gennaio, che attirò immediatamente molti entusiasmi, riunendo al suo primo meeting decine di migliaia di persone, soprattutto giovani. L’unità del Fronte durò però solo poche settimane per poi frantumarsi nuovamente in decine di formazioni distinte che persero ogni visibilità e che nel voto di domenica 23 ottobre sono state completamente dimenticate, a parte qualche seggio isolato e i 3 seggi ottenuti dal Partito Comunista.

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L’entusiasmo attorno al Fronte proveniva da una fetta piuttosto ampia della società che era stata parte attiva nel processo di rivolta: tantissimi giovani che scoprivano la passione politica, collettivi di laureati disoccupati, molti sindacalisti di base e tutti coloro, non pochi nel paese, orientati a sinistra ma senza rappresentanza. Costituito da forze politiche duramente represse dal regime e radicate nel territorio, il Fronte godeva inoltre di una notevole legittimità, rafforzata dalla presenza di noti e rispettati oppositori. Con la sua dissoluzione si dissolse anche un vasto terreno di consenso popolare che fu poi recuperato, in gran parte, da Nahda e che per il resto si dissolse nel non voto.

Il recupero di consensi e sostegni fu un compito relativamente semplice. Fondato negli anni ’80 e radicato nel territorio, nonostante fosse stato costretto alla clandestinità, Nahda aveva subito il peso maggiore della repressione, con migliaia dei suoi militanti, perlopiù d’estrazione popolare, uccisi, torturati o imprigionati. Gran parte dei suoi membri aveva partecipato alle rivolte e il partito, anche dopo la sua legalizzazione e il ritorno dall’esilio londinese di Rachid Ghannouchi, storico leader del movimento e dell’islam politico, rifiutò posizioni immediate di potere e continuò a sostenere le rivendicazioni popolari, accreditandosi, agli occhi di molti, come la sola forza politica a farsi portavoce del malessere sociale che aveva alimentato le rivolte. A consolidare ed estendere il sostegno per il partito islamico ha poi contribuito la rete di militanti presenti nel paese e la grande disponibilità di mezzi, grazie a fondi e finanziamenti locali e internazionali, di cui gode la propria leadership.

Un grande contributo all’affermazione di Nadha è però stato offerto proprio dal PDP e dal PDM, le due grandi forze considerate laiche e progressiste, duramente penalizzate dal risultato elettorale. Radicate da anni nel tessuto politico e sociale, dopo il 14 gennaio godevano entrambe di una sicura visibilità e avevano un margine importante di negoziazione che spesero, però, per accettare rapidi compromessi con i vecchi apparati di regime. La loro impopolarità aumentò quando, forse spaventate dal divampare incontrollato delle rivolte e dal rischio caos, sostennero un’iniziativa promossa da alcuni cittadini che fece davvero un effetto singolare sull’opinione diffusa. In nome della stabilità e dell’economia, un migliaio di persone, autodefinitosi maggioranza silenziosa, organizzò un sit-in da tenersi ogni giorno dopo le 17, cioè dopo l’orario di lavoro, per chiedere la fine delle proteste e delle rivolte. Il sit-in, estremamente civile e organizzato in un parco per non intralciare il traffico, fu visto dai più come un anti-kasba e una contro-rivoluzione.

Alle elezioni per l’assemblea costituente ci si è dunque arrivati nonostante la volontà contraria del PDP e del PDM, ma è poi stata la campagna politica promossa dal Polo, interamente centrata sul tema della laicità, a spostare definitivamente un buon 10/15 % dell’elettorato verso Nahda. Com’era prevedibile, il tema si trasformò rapidamente, infatti, in questione identitaria e distinzione di classe. Formazione politica con tradizioni di sinistra, ma abituata alla sonnolenta opposizione degli anni di regime, il Polo non fu troppo visibile nel pretendere la fine dei metodi repressivi della polizia e si concentrò invece su alcuni episodi di violenza da parte di gruppi minoritari di salafisti, estremisti islamici cui fu rifiutata la legalizzazione di un partito, per denunciare una generica minaccia islamista, con chiari riferimenti a Nahda. L’episodio più grave è stato la distruzione di un cinema nel centro della capitale, dove era stata organizzata una serata speciale per la proiezione del film Ni Allah ni maitre, della regista franco tunisina Nadia El Fani e residente a Parigi da anni, che ha sempre pubblicamente dichiarato il proprio ateismo e la propria omosessualità. Tutte le forze politiche, compreso Nahda, hanno ovviamente condannato la violenza, ma è innegabile che la difesa dell’ateismo e dell’omosessualità non fosse un tema particolarmente sentito dalla maggioranza dei tunisini e soprattutto non facesse parte delle rivendicazioni che avevano spinto la gente nelle piazze. A chi aveva subito il peso della repressione e della corruzione, e che continuava a vedere uomini del regime in posizioni di potere, la battaglia per la laicità appariva assai lontana dalla loro realtà. Un mondo lontano, in effetti, da quello che il Polo mobilitava per le proprie manifestazioni e meeting, composto di intellettuali, liberi professionisti e artisti, che vivendo soprattutto nelle più importanti città costiere, si indignavano sinceramente nello scoprire, spesso per la prima volta, le reali condizioni di vita di molte regioni del paese. Due mondi che il momento rivoluzionario contro il regime aveva unito, ma che ora tornavano a separarsi attraverso una linea che è perfettamente rappresentata dalla distribuzione regionale dei risultati, con i pochi seggi ottenuti dal Polo distribuiti tra la capitale e un paio di turistiche città costiere, e i voti di Nahda concentrati nelle regioni del centro e del sud, con punte che arrivano all’80%.

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Il PDM è comunque riuscito, anche se con effetti perversi, a fare della laicità uno dei temi principali di queste elezioni, spingendo verso la polarizzazione dell’opinione pubblica attorno alla falsa alternativa tradizioni islamiche/cultura occidentale e facendo totalmente passare in secondo piano i temi economici, che la maggioranza dei partiti ha trattato solo a livello di generiche e demagogiche promesse.

Più che il grande successo di Nahda, è quindi il caso di considerare i grossi limiti delle altre forze politiche, il cui insuccesso non può certo essere spiegato, come alcuni progressisti sembrano pensare, con l’ignoranza del popolo.

Del tutto infondati, inoltre, sono i timori che la vittoria di Nahda suscita all’interno e all’esterno del paese. Anche non volendo credere alle dichiarazioni ufficiali di tutti i suoi leader in difesa del pluralismo parlamentare, la libertà d’espressione e i diritti acquisiti delle donne, resta il fatto che i numeri obbligano Nahda a cercare accordi e alleanze con altre forze. I negoziati sono ovviamente in corso e circolano alcuni nomi per le tre alte cariche dello Stato: presidente della repubblica, primo ministro e presidente dell’assemblea costituente. Sembra certa la formazione di un governo con Nahda e le due altre principali forze moderate, il CPR e Ettakatol, ma sul reale contenuto dei negoziati, a due settimane dalle elezioni, non trapela nulla dagli organi d’informazione. La mancanza di trasparenza, insieme alla diffusione di voci e rumori di cui non si conosce mai l’origine, caratterizza ancora il sistema dell’informazione, che la rivoluzione è riuscita a modificare solo in minima parte. Le voci del momento raccontano che il silenzio è dovuto a un conflitto attorno alla figura dell’attuale primo ministro, Caid Essebsi, nominato dopo le dimissioni di Ghannouchi e vecchio ministro ai tempi di Bourghiba, che Nahda vorrebbe come Presidente della repubblica contro la volontà di CPR e Ettakatol. Le voci aggiungono poi che Essebsi sarebbe l’uomo d’America, come dimostrerebbe il suo viaggio negli Usa dal 3 al 7 ottobre per colloqui personali con Obama.

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Indipendentemente dai nomi e dal governo che emergeranno da questi intricati negoziati, è comunque certo che la presenza di Nahda non produrrà nessun brusco mutamento nel paese, anche se è logico prevedere, perlomeno all’inizio, maggiori politiche sociali, data la necessità, per Nahda, di legittimarsi il consenso. D’altra parte, sia per quanto riguarda la politica economica sia per le linee generali di politica estera, le posizioni di Nahda coincidono con quelle delle altre forze moderate o di centrosinistra.

Dalle elezioni del 23 ottobre, importanti perché sono le prime dopo quell’ondata rivoluzionaria che proprio dalla Tunisia si è diffusa nel mondo, ci sono almeno due elementi positivi che possiamo osservare. Il primo, fondamentale, è l’acquisizione per i tunisini di un concreto diritto al pluralismo politico e alla libertà d’espressione, che non sempre coincide, com’è ormai evidente in Europa, con effettiva democrazia, ma è pur sempre apprezzabile. Il secondo elemento è che molto probabilmente Nahda contribuirà a sdoganare definitivamente l’islam politico, mostrando che può essere esattamente analogo alla politica cristiana o cattolica rivendicata da molti partiti occidentali. Questo sarebbe positivo perché oltre a ridurre i conflitti a causa di false questioni d’identità, sposterebbe l’attenzione generale su temi più propriamente politici.

Con uno sguardo più pessimista, e forse anche un po’ cinico, potremmo però osservare, con le dovute differenze e senza dimenticare la grande conquista del popolo tunisino, che il panorama politico emerso da queste elezioni è pressoché identico a quello esistente un po’ ovunque: un centro destra populista, che usa morale e religione come collante collettivo, un centro sinistra che ha esattamente la stessa visione economica, ma a cui manca persino un “collante” capace d’attirare entusiasmi, e una sinistra radicale frantumata in incomprensibili divisioni. Anche qui, come altrove, il malessere sociale e la parte progressista della società non hanno la capacità e la fantasia per immaginare un progetto alternativo comune che possa rimettere in discussione quelle regole globali che lo stesso segretario dell’ONU Ban Ki-Moon ha recentemente definito come il “patto suicida globale”. Come ormai nessuno sembra negare, il sistema economico attuale sta implodendo e gli effetti della crisi sulle persone saranno sempre più pesanti. I motivi che hanno condotto alle rivolte, non solo in nord-africa ma anche in Europa, si aggravano e rischiano di inasprire il conflitto sociale. E’ quindi necessario sperare che un tale progetto alternativo nasca al più presto e che sia capace di trasformare la moltitudine in soggetto politico, prima che la rabbia e il malessere della moltitudine si manifestino solamente in violenza distruttiva.

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