Daghestan, come si massacra un giornalista
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Daghestan, come si massacra un giornalista

Danno la colpa ai terroristi, ma i 14 colpi che hanno ucciso Khadzhimurad Kamalov hanno la voce del potere.

Giornalista ucciso in Daghestan
Giornalista ucciso in Daghestan
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21 Dicembre 2011 - 12.34


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di Giorgio Comai

Alle ore 23.30 del 15 dicembre il giornalista Khadzhimurad Kamalov, fondatore e proprietario del settimanale daghestano indipendente Chernovik (http://www.chernovik.net ), è stato ucciso con 14 colpi di pistola a Makhachkala, capitale del Daghestan, vicino agli uffici del giornale. Nessuno mette in dubbio che Kamalov sia stato ucciso proprio per la sua attività giornalistica e per il suo impegno sociale.

Il settimanale Chernovik, pubblicato in Daghestan dal 2003, è stato pensato da Kamalov per fornire un’offerta informativa sostanzialmente diversa da ciò che il pubblico è abituato a leggere o sentire dai media locali. Niente autocensura e ampi spazi per una critica seria e sostanziata alle autorità, articoli con nomi e cognomi, accuse dirette all’operato delle forze di polizia controllate dal ministero degli Interni, descrizione dei metodi da loro utilizzati, denuncia di rapimenti e torture, ma anche di episodi di corruzione nel mondo degli affari locali o brogli elettorali. Khadzhimurad Kamalov era quindi una presenza scomoda a molti. La sua uccisione, un chiaro messaggio del rischio che corre chi osa esporsi pubblicamente per denunciare lo stato delle cose nel Daghestan di oggi.

Così lo ricorda la giornalista Irina Gordienko sulla Novaja Gazeta , “Solo Kamalov poteva permettersi di dire pubblicamente e alla presenza del presidente del Daghestan in faccia al potente ministro degli Interni locale Adil’gerej Magomedtagirov ‘Tu sei un ladro e un assassino, e io lo dimostrerò’. E così indagava questioni riguardanti le forze dell’ordine in Daghestan che rapivano e uccidevano persone, gli affari milionari della ‘dogana daghestana’, e noti omicidi politici. [.] Gli ho chiesto molte volte se aveva paura. Lui rispondeva, in tono scherzoso ‘Cosa mai possono farmi? Solo uccidermi…'”

Il presidente del Daghestan, Magomedsalam Magomedov, si è recato alla casa dove Kamalov viveva per portare le proprie condoglianze alla famiglia. Lo stesso Magomedov ha proposto di creare una commissione di cui facciano parte membri del parlamento, rappresentanti della società civile, giornalisti e membri della redazione di Chernovik per seguire il corso delle indagini. Nonostante la grande risonanza dell’omicidio e il pubblico impegno della leadership locale a individuare chi ha ucciso Kamalov, in pochi credono davvero che i colpevoli verranno puniti. Numerosi sono infatti i giornalisti uccisi per la loro attività professionale in Caucaso del nord negli ultimi vent’anni, i loro casi quasi tutti irrisolti. Non vi è una pista univoca riguardo a mandanti ed esecutori dell’omicidio di Kamalov. Troppi i temi e i gruppi di potere toccati negli articoli scritti da lui o pubblicati sul suo giornale.
Se è chiaro che non si tratta di una vittima diretta dello scontro tra ribelli e forze dell’ordine che tormenta la regione, è altrettanto evidente che è proprio il contesto di estrema instabilità e impunità diffusa che caratterizza la regione che ha posto le precondizioni perché avvenisse questo omicidio. Attentati, rapimenti, scontri, torture La situazione in Daghestan rimane infatti molto preoccupante.

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Secondo Caucasian Knot , principale portale di notizie indipendente che si occupa del Caucaso del nord, tra gennaio e novembre 2011, 372 persone sarebbero morte in seguito a scontri tra ribelli e forze dell’ordine o in seguito ad attentati, 313 sarebbero i feriti. Quattro volte di più che nella vicina Cecenia (92 morti, 110 feriti nello stesso periodo). Sono questi i dati che hanno portato la BBC a definire il Daghestan in un reportage dello scorso novembre come “il luogo più pericoloso d’Europa”. Le statistiche mostrano impietosamente come la pacificazione della regione non sia realtà e come il processo di stabilizzazione non riesca ad ottenere successi reali.
Le autorità incolpano della situazione l’estremismo islamico e il sottosuolo terroristico ad esso connesso. Ma l’attuale situazione è ampiamente imputabile anche a un circolo vizioso in cui le stesse forze dell’ordine hanno gravi responsabilità. Nel report annuale di Human Rights Watch del 2011 si legge di come in Daghestan “torture da parte della polizia siano endemiche”. Stampa indipendente e organizzazioni per i diritti umani denunciano costantemente la persecuzione anche violenta di persone afferenti all’islam salafita e il rapimento arbitrario da parte delle forze dell’ordine di persone incolpate in seguito di aver commesso crimini di cui non vi è la possibilità o il desiderio di individuare i reali responsabili.

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La principale organizzazione a difesa dei diritti umani in Russia, Memorial, ha pubblicato nel mese di febbraio di quest’anno un dettagliato report riguardo alla locale sede della polizia di Kiziljurt, in Daghestan. Nel documento si riportano casi (con tanto di nomi, cognomi, date ed altri dettagli) di “arresti illegali, furto di beni di valore, violenze e torture commesse presumibilmente da uomini della polizia controllata dal ministero degli Interni di Kiziljurt, violazioni dei diritti dei fermati durante la detenzione (rifiuto illegale di fornire cibo o vestiti, tortura per fame), falsificazione dei materiali di casi penali, minacce e insulti nei confronti di avvocati, pressione su vittime che cercavano di difendere i propri diritti.” Arresti arbitrari, torture, rapimenti e corruzione contribuiscono ad un clima in cui le forze dell’ordine sono percepite in primo luogo come una minaccia. È in questo contesto che il movimento ribelle trova nuove leve per realizzare azioni in particolare contro polizia e autorità locali, ma anche attentati che causano numerose vittime civili. Ciononostante, le forze dell’ordine locali continuano ad operare in un clima di sostanziale impunità, senza che a report come questo di Memorial seguano reali indagini interne.

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Il presidente del Daghestan Magomedsalam Magomedov, ammettendo che l’attività dei ribelli è il primo problema della regione, ha deciso di offrire una via di uscita a persone coinvolte nel movimento ribelle. A partire da quest’anno, infatti, ha iniziato a funzionare in Daghestan una “Commissione per il riadattamento alla vita pacifica di persone che hanno deciso di smettere la propria attività terroristica e estremistica sul territorio della repubblica del Daghestan”, diretta dal primo vice-ministro del Daghestan Rizvan Kurbanov. Fino ad ora vi ha fatto ricorso solo qualche decina di persone, ma si registra comunque soddisfazione per l’iniziativa. Un piccolo passo mirato a interrompere quel circolo vizioso che contribuisce alla perpetuazione del conflitto nella regione che potrebbe fungere da modello per esperienze simili in altre repubbliche del Caucaso.

Ma è un piccolo passo che sicuramente non basta. Secondo Tanya Lokshina di Human Rights Watch, “Tutte queste commissioni possono fare il loro lavoro, ma non faranno in modo che le persone arrestate smettano di essere picchiate [.] Gli ufficiali di polizia sono certi di essere sopra la legge. Se la tortura è diffusa e nessuno è stato portato davanti a un giudice per questo, perché non continuare così?”

Finché non cambia il comportamento della polizia e membri delle forze dell’ordine non verranno processati e condannati per il loro comportamento rimane difficile credere nella piena sincerità delle intenzioni delle leadership sia locale che nazionale di portare pace e stabilità nel Caucaso.

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