Hamas dice addio a Damasco. Il movimento islamico palestinese non lo confermerà mai ufficialmente, ma l’abbandono della capitale siriana, per molti anni sua roccaforte in esilio, è una decisione già presa dal consiglio della Shura e dal capo del politburo Khaled Mashaal. Certo, un ufficio locale rimarrà operativo in Siria ma l’assenza di una tappa a Damasco nel tour che sta svolgendo nella regione il premier di Gaza, Ismail Haniyeh, spiega tutto senza bisogno di un annuncio ufficiale. Non solo. Il premier di Hamas domenica scorsa è stato accolto con tutti gli onori in Turchia dal premier Erdogan e dal ministro degli esteri Davutoglu, a conferma delle relazioni sempre più strette con gli islamisti turchi, ora avversari implacabili del presidente siriano Bashar Assad.
Secondo la stampa araba e in particolare il quotidiano libanese al Akhbar, 200 «impiegati» dell’ufficio di Hamas hanno già lasciato Damasco per Turchia, Libano, Qatar, Sudan e Egitto. I loro familiari in possesso di documenti giordani si sono trasferiti ad Amman, i rimanenti hanno raggiunto altre capitali. Mashaal e il suo vice Musa Abu Marzouq sono ufficialmente ancora in Siria ma trascorrono più tempo fuori che a Damasco. E si dice che il Qatar sia pronto a versare generose donazioni nelle casse vuote giordane se il regno hashemita tornerà ad accogliere la leadership di Hamas (come prima del 1999). Amman smentisce, ma pare che la trattativa sia aperta.
La quasi guerra civile siriana, con lo scontro aperto in varie aree del paese tra la maggioranza sunnita e i militari del regime di Bashar Assad dominato dalla minoranza alawita, ha messo alle strette i dirigenti di Hamas. Una fonte giornalistica di Gaza molto vicina al movimento islamico ha detto al manifesto che i Fratelli musulmani siriani hanno chiesto ai loro compagni palestinesi di negare appoggio allo «sciita» Assad. Anche perché la situazione sul terreno indica che in Siria -come in Tunisia, Marocco, Libia ed Egitto- le forze islamiste sunnite presto arriveranno al potere. «La decisione di prendere le distanze da Assad -aggiunge la fonte- si inserisce in un processo di trasformazione di Hamas in senso pragmatico, voluto da Mashaal e Haniyeh».
Hamas in sostanza vuole darsi una veste più politica e meno militante -pur senza rinunciare pubblicamente alla lotta armata né riconoscere apertamente Israele, come gli chiedono Usa e Unione europea- di fronte ai cambiamenti provocati dalle rivolte arabe nel 2011 che, avviate da movimenti e forze laiche contro tiranni e dittatori, hanno aperto la strada del potere ai partiti islamisti. Nuove leadership arabe non antagoniste degli interessi americani nella regione, come prova la Libia post-Gheddafi. E l’Amministrazione Obama ha già ricambiato con aperture inimmaginabili negli otto anni di George W. Bush alla Casa Bianca. D’altronde Washington è alleata da decenni di monarchie «feudali» arabe che impongono nei loro paesi modelli sociali e culturali ben più chiusi di quelli proposti dalla Fratellanza islamica.
La tendenza in corso, scommette Mashaal, è destinata ad arrivare anche nei Territori occupati. Da qui la decisione di accellerare la riconciliazione con l’Anp di Abu Mazen e dare il via libera alle elezioni legislative e presidenziali, che dovrebbero tenersi il prossimo maggio. Hamas è abbastanza sicuro di poter bissare il successo del 2006 e ha buone speranze di conquistare anche la presidenza palestinese se, come sembra, Abu Mazen si farà da parte e i rivali di Fatah non riusciranno a candidare il loro dirigente più popolare, Marwan Barghouti, in carcere in Israele da quasi 10 anni: Benyanim Netanyahu non lo volle scarcerare nel quadro del recente scambio tra il soldato Ghilad Shalit e centinaia di detenuti palestinesi.
Nel processo di trasformazione rientra anche l’ordine dato da Mashaal di fermare i lanci di razzi da Gaza verso Israele. E il probabile cambio del nome del movimento in «Fratelli musulmani della Palestina» – coerente con il recente passo compiuto da Hamas di rendersi autonomo dalla Fratellanza giordana. Sollecitato con gran forza da Erdogan e Davutoglu e volto a lanciare segnali concilianti a Stati Uniti ed Europa, l’ammorbidimento di Hamas si scontra però con il rifiuto di Israele a qualsiasi apertura se non preceduta dal suo riconoscimento pieno da parte degli islamisti palestinesi. Sul quotidiano Haaretz l’analista Gideon Levy commenta: «Invece di incoraggiare la moderazione, autentica o immaginaria, strategica o tattica, Israele si affretta a stroncarla alla nascita».