Turchia: la leadership passa per Damasco
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Turchia: la leadership passa per Damasco

Chiaro l’obiettivo di Erdogan: guadagnare il ruolo di leader in Medio Oriente e rappresentare un modello di democrazia islamista, scalzando la Siria di Bashar Assad.

Turchia: la leadership passa per Damasco
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11 Gennaio 2012 - 15.00


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Sanzioni economiche e finanziarie contro Damasco, acquisto di armi dagli Stati Uniti, ospitalità all’opposizione siriana. La Turchia si muove. L’obiettivo, prendere definitivamente il posto della Siria nello scacchiere mediorientale, diventare il nuovo punto di riferimento della regione dopo la Primavera Araba.

Il premier turco Erdogan, amico di vecchia data del presidente siriano Bashar al-Assad, ha tagliato i ponti per guadagnarsi il suo posto al sole. Come ben spiegato da Madawi Al-Rasheed in un editoriale apparso nel sito di informazione Al Akhbar, le mire turche appaiono chiare: Paese amico di molte fazioni libanesi, difensore della resistenza palestinese e allo stesso tempo membro della Nato e punto di riferimento dei poteri occidentali, la Turchia sta tentando da anni di farsi modello di una moderna democrazia islamica, sia sul piano politico che economico.

Mantenendo le distanze dal liberalismo e dal modello globalizzatore occidentale di cui contesta metodi e principi, Ankara lavora per presentarsi come l’alternativa. E nel suo cammino, Damasco va piegata. Non ne sono mancati esempi significativi negli ultimi mesi: con Bashar alle strette, con la Siria preda di una crisi interna che rischia di far saltare il regime alawita, il premier turco Erdogan ha agito di conseguenza.

È di oggi la notizia di un cargo intercettato dalle forze di sicurezza turche, sospettato di trasportare armi e equipaggiamento militare dall’Iran alla Siria. Yusuf Odabas, governatore della provincia turca di Kilis, ha reso noto che quattro camion sono stati confiscati a Oncupinar, al confine con la Siria. Un atto che segue le dure sanzioni economiche e finanziarie che Ankara ha imposto a novembre a Damasco, dopo aver appoggiato la decisione della Lega Araba in merito alla sospensione della Siria dall’Assemblea. A dimostrazione del dissanguamento del sostegno che i Paesi della regione danno oggi alla Siria. A sostenere con poca veemenza Damasco è rimasto l’Iran, che condivide con la Siria l’appartenenza alla compagine sciita.

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E Erdogan non pare volersi fermare: lunedì in una conferenza stampa nella capitale turca ha lasciato intendere che la Turchia potrebbe intervenire con ulteriori sanzioni. Punizioni giustificate con la repressione delle proteste di cui è imputato il presidente Bashar: secondo organizzazioni internazionali, tra cui le Nazioni Unite, le forze di sicurezza governative siriane avrebbero ucciso in questi mesi di protesta nelle strade di tutta la Siria circa 7000 manifestanti. “La situazione in Siria sta evolvendo verso una guerra religiosa, settaria e razziale e c’è bisogno di intervenire”, ha detto il premier Erdogan lunedì. “La Turchia deve assumere il ruolo di leader perché la situazione attuale rappresenta una minaccia per il nostro Paese”.

Più volte negli ultimi mesi il premier Erdogan ha chiesto ufficialmente a Bashar di mettersi da parte, al fine di scongiurare un intervento militare pericoloso non tanto per la Siria quanto per il resto della regione. A preoccupare Ankara sono i riflessi che una guerra in Siria potrebbero provocare ai confini con la Turchia, a cominciare dall’eventuale flusso di rifugiati siriani e dal possibile intervento iraniano.

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La scorsa settimana il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, ha espresso la preoccupazione per l’esplosione di una guerra settaria in Medio Oriente, tra sunniti e sciiti, guerra che rappresenterebbe “il suicidio dell’intera regione”. Lunedì Davutoglu, nel terzo incontro con il Consiglio Nazionale Siriano (composto da numerose correnti e fazioni contrarie al regime di Bashar) ha fatto appello all’opposizione siriana, di cui molti rappresentanti e membri hanno trovato rifugio in Turchia, a resistere alla repressione con metodi pacifici.

La ricetta turca appare chiara: un intervento umanitario internazionale che eviti lo scoppio di una guerra civile in Siria, attraverso la creazione di una zona cuscinetto e di un corridoio umanitario per accogliere gli eventuali profughi siriani. Con una importante clausola: un eventuale attacco contro la Siria non deve partire dal territorio turco.

In ogni caso, la Turchia non intende restare a guardare, la preda è troppo succulenta: la leadership di una regione che ha perduto i suoi tradizionali punti di riferimento, Siria ed Egitto, e a cui restano solo i due opposti estremismi di Iran e Arabia Saudita. Ankara è coscia di poter diventare un modello moderno di democrazia mediorientale, capace di mantenere rapporti di amicizia ma non di dipendenza con gli alleati della Nato.

Proprio ieri è stato annunciato l’acquisto di droni di fabbricazione statunitense. Durante una conferenza stampa il console generale turco a Erbil, Aydin Selcen, ha annunciato l’accordo spiegando la politica che la Turchia intende indirizzare verso Siria e Stati Uniti: “Siamo in costante contatto con l’amministrazione americana attraverso il nostro ambasciatore a Washington che recentemente ha detto che le relazioni tra Turchia e Stati Uniti non sono mai state tanto robuste come negli ultimi decenni”.

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“Non so quando Assad lascerà o quando il regime cambierà in Siria. Ma la nostra politica è chiara. Il primo ministro e il ministro degli Esteri hanno tentato di convincere Bashar a realizzare velocemente delle riforme; lui non lo ha fatto e noi riteniamo che uccidendo la sua gente abbia perso la sua legittimazione. Per questo siamo fortemente convinti che il regime debba cambiare e Bashar debba andarsene. Restiamo in attesa, mantenendo il dialogo aperto con tutti i nostri alleati: Stati Uniti, Francia e gli altri poteri regionali”.

Una richiesta a cui il presidente Bashar ha indirettamente risposto ieri: in un discorso tenuto all’Università di Damasco Assad ha dato la versione del regime in merito alle contestazioni in atto e attaccato la Lega Araba e quei Paesi che intendono interferire. “La situazione è quella di un medico che con la sigaretta in bocca dice ad paziente di smettere di fumare”. Bashar è stato chiaro: “Lascerò quando lo vorranno i cittadini. C’è una complotto esterno evidente a tutti. La nostra battaglia contro il terrorismo è una battaglia nazionale, non solo del governo”. Accusando poteri stranieri occidentali e mediorientali di essere i burattinai di una protesta che non nasce dalla volontà del popolo siriano.

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