Oggi in Egitto è un anno fa: la piazza è nostra
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Oggi in Egitto è un anno fa: la piazza è nostra

All'inizio il nemico era Mubarak, poi la polizia corrotta. Oggi l'avversario da cacciare è la Giunta militare. Piazza Tahrir è cambiata, ma rimane viva. [Lorenzo Declich]

Oggi in Egitto è un anno fa:  la piazza è nostra
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Lorenzo Declich Modifica articolo

25 Gennaio 2012 - 09.02


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Da diverse settimane gli attivisti egiziani preparano l’anniversario della Rivoluzione del 25 gennaio, che iniziò col “Giorno della Rabbia”. Le cose sono cambiate, eccome, rispetto a un anno fa.

La piazza è molto diversa. Principalmente perché quest’anno la rivendicazione principale riguarda i militari, a cui i manifestanti chiedono di farsi da parte (la campagna principale degli attivisti è contro le “bugie” dei militari), mentre un anno fa i militari erano considerati, a torto o a ragione, i garanti della piazza. Una rivendicazione molto più dura e di difficile realizzazione della precedente, perché colpisce il cuore del potere egiziano, strutturatosi tutto attorno alla rivoluzione degli “ufficiali liberi” del 1952.

E anche perché oggi c’è una Camera bassa eletta (nonostante le evidenti irregolarità e frodi registrate un po’ ovunque) che racconta un Egitto dominato dall’islam politico, da forze conservatrici (i Fratelli Musulmani) e tradizionaliste radicali (le formazioni salafite) che, in forza della loro vittoria, agiscono “in parallelo” con i militari per togliere legittimità a quelle formazioni sociali e politiche, principalmente di sinistra, che hanno fatto la rivoluzione.

Ieri il nemico numero uno dei rivoluzionari era Hosni Mubarak, poi c’era la polizia corrotta. Oggi il nemico è la Giunta militare che, negli ultimi mesi, ha mostrato il suo vero volto e anche la raffinatezza della propria strategia tesa al mantenimento del proprio potere di interdizione del processo democratico ma, soprattutto, al mantenimento del proprio privilegio economico (le stime differiscono molto, ma i militari, al di là del budget per gli armamenti e per il mantenimento dell’esercito, posseggono dal 20 al 40% dell’intera economia egiziana e agiscono al di fuori delle regole del mercato). Poi vengono, oltre ovviamente ai subdoli salafiti (che non hanno fatto la rivoluzione e, per fare un esempio di questi giorni, attaccano gli attivisti ad Alessandria), i Fratelli Musulmani, rei di aver congiurato con i militari per spegnere il fuoco della rivolta e di aver pensato unicamente a guadagnarsi la loro fetta di potere nella nuova democrazia elettorale egiziana.

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I rivoluzionari le elezioni le hanno perse anche se, ribaltando la prospettiva, c’è da dire che la presenza in parlamento di di sette “rivoluzionari” testimonia l’esistenza di una sinistra vera in Egitto, la presenza di movimenti dal basso, nonostante la repressione che da decenni colpisce proprio la sinistra e i movimenti, favorendo le “opposizioni compiacenti” dei Fratelli Musulmani. E inoltre i rivoluzionari si stanno riprendendo la piazza, un luogo che nelle democrazie mature è fonte di elaborazione e di trasformazione sociale. Una piazza che, per questo, fa ancora molta paura a uomini di potere vecchi e nuovi, tanto che le strategie per mettere il cappello sulle iniziative e/o a limitare la forza della contestazione si moltiplicano.

Uno dei leader storici della Fratellanza Musulmana, Khairat El-Shater, ha dichiarato ieri che l’autorità oggi è del Parlamento, e non di Tahrir, facendo finta di non sapere che quel Parlamento è il frutto, ancora una volta, di una gestione militare, che una nuova Costituzione è ancora bel lungi dall’esser stata messa in ruolo. E che, guardacaso, la prima sessione di quella Camera bassa (che è solo uno dei rami del Parlamento) si è tenuta il 23 gennaio, solo due giorni fa. Contemporaneamente un gruppo salafita ha dichiarato che parteciperà alle manifestazioni per “evitare degenerazioni” mentre i responsabili del partito al-Nur affermano che saranno in Piazza Tahrir.

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Da parte sua la Giunta militare ha predisposto una serie di strumenti per frenare l’impatto della giornata, depotenziarlo. La Giunta ha dichiarato che il 25 gennaio è festa nazionale, aggiungendo che un terzo della “gioventù rivoluzionaria” fa la leva militare, che le celebrazioni dimostreranno che l’Egitto è un paese calmo e stabile e che gli egiziani non cadranno nel vortice del caos. Il Maresciallo Tantawi ha revocato poi lo stato d’emergenza (ma con la non trascurabile eccezione di situazioni di “teppismo”, sulle quali sono gli stessi militari a giudicare) e ha liberato il blogger Maikel Nabil, producendosi in uno di quegli “atti di clemenza” fatti appositamente per nascondere l’agghiacciante verità delle torture e di migliaia e migliaia di attivisti che sono ancora in prigione e che sono messi a giudizio in tribunali militari.

Il maresciallo Tantawi parlarà alla nazione proprio oggi, laddove gli attivisti denunciano il black out della televisione di Stato sulle loro manifestazioni. Ma la piazza, più o meno screditata, più o meno capace di coordinarsi e di contare, è oggi soltanto dei 55 gruppi politici e sociali che genuinamente aderiscono alle manifestazioni che si terranno, oltre che al Cairo, anche ad Alessandria, Suez, Beni Soueif, Port Said, Kafr Al-Sheikh, Minya, Damietta, Mahalla, Mansura.

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Oggi ci saranno manifestazioni di solidarietà a Roma, Milano e Venezia.

 

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