Iraq, ora i sunniti boicottano a metà
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Iraq, ora i sunniti boicottano a metà

Il partito sunnita Iraqiya torna in parlamento ma continua a protestare contro il governo Maliki, che arresta e tortura gli oppositori. Intanto i droni Usa sorvolano il Paese.

Iraq, ora i sunniti boicottano a metà
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30 Gennaio 2012 - 10.27


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di Emma Mancini

Il Parlamento iracheno torna a funzionare ma la crisi politica non è ancora disinnescata. La spaccatura interna tra le diverse anime del nuovo Iraq non è stata ricucita e i settarismi tra sciiti e sunniti mantiene instabile un Paese scosso da continui attacchi terroristici.

Dopo il mandato d’arresto spiccato a fine dicembre dal governo del premier Maliki nei confronti del vicepresidente Tariq al-Hashimi, il partito sunnita Iraqiya di cui è membro Hashimi aveva optato per una sospensione dell’attività parlamentare dei propri eletti. Una decisione che in questi giorni il partito sta rivedendo. Ieri Iraqiya, che gode in Iraq del sostegno della maggior parte della comunità sunnita e di alcuni sciiti laici, ha annunciato che martedì i propri parlamentari riprenderanno la normale attività legislativa.

Ma allo stesso tempo la portavoce del partito, Maysoon al-Damluji, ha specificato che il boicottaggio del governo sciita di Maliki proseguirà: i ministri di Iraqiya non prenderanno parte al Consiglio dei Ministri di martedì come forma di protesta per l’arresto e la persecuzione dei propri membri.
È di venerdì, infatti, la notizia dell’arresto da parte delle forze di sicurezza governative di due donne impiegate nell’ufficio politico del vice presidente Hashimi, tuttora “latitante” a Nord, nella regione autonoma curda. A rendere nota la detenzione è stata Amnesty International, preoccupata dalla possibilità che le due funzionarie potessero subire torture in carcere: “Una delle impiegate – ha spiegato in un comunicato Amnesty – Rasha Nameer Jaafer al-Hussein, è stata arrestata a casa dei genitori a Baghdad il primo gennaio. L’altra impiegata, Bassima Saleem Kiryakos, è stata portata via lo stesso giorno dalla capitale, nella sua casa presa d’assalto da oltre 15 uomini armati con l’uniforme militare”.

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Quindi, il boicottaggio continua: “Come gesto di buona volontà – ha detto la portavoce sunnita al-Damluji – Iraqiya annuncia il suo ritorno in parlamento per creare un’atmosfera sana che aiuti il Paese e disinneschi la crisi politica”. L’obiettivo del maggior partito sunnita della coalizione di governo è quello di dare il via ad una sorta di conferenza nazionale che metta insieme tutte le fazioni politiche irachene. Tra loro non solo sunniti e curdi, ma anche sciiti.
Iraqiya denuncia da mesi il tentativo di Maliki, uomo di Washington salito al potere grazie all’appoggio dell’amministrazione statunitense, di buttare fuori dal governo la componente sunnita e di voler trasformare il governo in un vero e proprio strumento dittatoriale. Attraverso arresti e vessazioni: le detenzioni di funzionari di partito non stanno riguardando solo Iraqiya (si parla di 89 arrestati), se si tiene conto che tra ottobre e novembre sono stati centinaia i membri del partito Baath di Saddam Hussein a finire dietro le sbarre.
In un simile clima il boicottaggio dell’attività legislativa è stato visto come mezzo di resistenza, riuscendo a paralizzare nell’ultimo mese il Parlamento iracheno.

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La decisione di riprendere i propri posti in aula è giunta dopo l’appello del vicepresidente americano, Joe Biden, che da tempo compie pressioni perché si arrivi ad una pacificazione interna in grado di evitare una guerra civile frutto di nove anni di guerra e di occupazione militare statunitense. L’attuale crisi politica è il palese prodotto dell’interferenza americana, il cui scopo è stato negli ultimi anni quello di proteggere i propri affari economici e strategici: rovesciando il regime sunnita autoritario di Saddam e aprendo la strada ad un altrettanto dittatoriale potere sciita, Washington ha enfatizzato la spaccatura interna tra le due fazioni, incapaci ora di giungere ad una riconciliazione.
Che ora qualcuno ritiene possibile attraverso una conferenza nazionale che coinvolga tutte le fazioni e che da tempo il presidente iracheno Jalal Talabani tenta di organizzare.

È indispensabile per Washington evitare lo scoppio di una crisi settaria in un Paese d’importanza strategica e politica come l’Iraq, appena lasciato dalle truppe a stelle e strisce. Abbandonare l’Iraq sull’orlo di una guerra civile significherebbe aprire la strada al controllo di Baghdad da parte dell’Iran, un’eventualità che l’amministrazione Obama non può accettare. Tanto da mantenere una sorta di controllo militare del Paese: il Dipartimento di Stato americano sta operando una sorveglianza aerea nei cieli iracheni attraverso una flotta di droni. Ufficialmente in missione per proteggere l’ambasciata e i consolati americani, ma giudicata dal governo iracheno un affronto alla sovranità del Paese.

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Washington si difende: i droni sono semplicemente uno scudo difensivo e non armato, diretto a garantire la sicurezza dei propri concittadini in un Paese circondato da potenziali minacce (come Iran e Pakistan). Ma appare chiaro come la presenza di una simile aviazione sia volta a mantenere il controllo dell’Iraq: sono circa 5mila i contractor privati che stanno operando nel Paese per la protezione dei circa 11mila membri dello staff americano ancora presenti in ambasciata e nei consolati.
Un’operazione che richiederebbe il via libera del governo di Baghdad, un via libera mai arrivato. Secondo fonti americane, sarebbero in corso negoziati tra i due governi, ma Ali al-Mosawi (braccio operativo del premier Maliki) e Falih al-Fayadh (consigliere della sicurezza nazionale) negano che l’esecutivo iracheno sia mai stato consultato.

E mentre il clima politico rimane bollente, per le strade irachene non si respira altro che tensione. Venerdì un attentatore suicida si è fatto esplodere a Sud Ovest di Baghdad durante un funerale sciita: 33 morti e 65 feriti. E a gennaio il bilancio delle vittime di attacchi terroristici ha così superato i 200 morti.

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