Hamas e Fatah hanno raggiunto un accordo a Doha, con la benedizione (spirituale e pecuniaria) dell’Emiro del Qatar, per formare un governo tecnico di unità nazionale guidato dal presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas. Il futuro esecutivo avrebbe il compito primario di traghettare i palestinesi alle urne per nuove elezioni parlamentari e presidenziali. Il condizionale è d’obbligo nonostante l’annuncio del nuovo governo sia atteso al Cairo per il prossimo 18 febbraio. In numerose altre occasioni le due fazioni rivali, confrontatesi militarmente a Gaza nella primavera del 2007 in un feroce conflitto fratricida in cui prevalsero gli islamisti che da allora al potere nella Striscia, hanno provato a formare, senza successo, un esecutivo di transizione. Stavolta sembrano vicini a una svolta.
La televisione palestinese ha riferito che l’intesa di Doha prevede anche clausole sul rilascio dei prigionieri politici (quelli di Hamas sono in galera in Cisgiordania, quelli di Fatah a Gaza) e il rinnovo dei vertici dell’Olp. Che riescano a mettersi d’accordo si capisce non solo dalla scontata reazione contrariata di Bibi Netanyahu, che ha accusato Abbas di preferire l’accordo con Hamas alla pace con Israele (gli piace far ascoltare sempre lo stesso disco), ma da quella dello zoccolo duro del movimento islamico al potere a Gaza, proveniente dalle frange più estremiste della sua ala armata, le brigate Ezzedim al Qassam. Secondo esperti d’intelligence, l’affermazione politica della Fratellanza Musulmana in Egitto e in Tunisia (movimento da cui Hamas deriva), è un fattore determinate per la riconciliazione tra le fazioni palestinesi a fini politici. L’Emiro del Qatar conta perché ha il compito di riaccogliere Hamas nell’alveo della grande famiglia sunnita (come in Arabia Sauditi esiste la maggioranza della popolazione è wahabita). Solo che a Gaza i gruppi armati votati al salafismo jihadista, ectoplasma della stessa armata di Hamas, particolarmente attivi a sud della Striscia, non pensano affatto a entrare a far parte di un governo con i laici “servi dell’Occidente” di Fatah. Si chiedono piuttosto perché Hamas non abbia imposto con maggior rigore la sharia a Gaza. «È possibile che ci possa essere una scissione all’interno di Hamas dopo la firma dell’accordo per un governo unitario con l’Anp sottoscritto oggi a Doha da Khaled Meshaal perché alcuni capi delle brigate Ezzedin al-Qassam riconoscono legittimo l’accordo firmato in Qatar con Abu Mazen», ha dichiarato un dirigente del movimento islamico palestinese alla tv satellitare “al-Arabiya”. Se questo scenario dovesse palesarsi c’è da chiedersi che atteggiamento assumeranno le fazioni scissioniste a Gaza. Sono armate, come lo sono quelle che restano fedeli alla linea della leadership. E questa non è una buona notizia della popolazione, senza via di fuga che a sparare sia Israele o Hamas. I gazawi hanno già assistito alla guerra intestina Hamas-Fatah. Se dovesse determinarsi una frattura causata dal rifiuto del nuovo governo palestinese, il conflitto sorgerebbe tra formazioni islamiche, in stile somalo. C’è da meravigliarsi? Non tanto.
Il processo agli assassini di Vittorio Arrigoni, giunto all’ennesima udienza, è una farsa. Hamas è in questo senso ostaggio della sua ala armata più estremista. La stessa che nel 2009 pensava di proclamare l’Emirato a Rafah. Allora gli islamisti che comandano a Gaza fecero una strage. Oggi, che nella Striscia sono politicamente molto più deboli, i presunti scissionisti, pur in condizione di netta inferiorità numerica e militare, potrebbero dare più filo da torcere ai “moderati”, che guardano ai successi della Fratellanza Musulmana nella Regione. A conferma del fatto che Hamas non ha il piglio di una volta a Gaza, è interessante ricordate che l’estate scorsa durante il Ramadan Hamas aveva organizzato posti di blocco la sera. Gli islamisti cercavano qualcuno nel territorio che in teoria controllano.
In questo quadro, Khaled Meshaal, capo dell’Ufficio politico di Hamas e protagonista degli incontri a Doha, da mesi prepara il commiato alla sua terra “d’adozione”. Non poteva certo restare a Damasco sotto l’ala protettrice di Bashar al Assad, in guerra con l’esercito dei disertori siriani in maggioranza sunniti.
La Fratellanza Musulmana siriania ha con gli alawiti al potere a Damasco conti in sospeso dagli anni ’80.
E per la serie il nemico del mio nemico è mio amico, Israele potrebbe paradossalmente trovarsi le mani un po’ più libere per l’attacco all’Iran che prepara da mesi. L’Arabia Saudita alleata degli Usa non aspetta altro che arrivi il momento di «tagliare la testa al serpente», com’ebbe a dire l’ambasciatore saudita a Washington, Adel al-Jubeir, in un incontro avvenuto nell’aprile del 2008 con il generale USA David Petraeus, in riferimento all’Iran. Resta da vedere cosa accadrà a Gaza e dove si posizioneranno gli scissionisti se la Fratellanza Musulmana si girerà dall’altra parte quando Israele attaccherà gli Ayatollah. I sauditi hanno già accordato il passaggio sul loro spazio aereo.