Saleh tornerà in Yemen. Di nuovo. Lo ha annunciato martedì in un discorso pubblicato sul sito del Ministero della Difesa. “Tornerò nel Paese alla fine del mio trattamento medico per essere presente alle elezioni presidenziali”, ha dichiarato Saleh, dimostrando ancora una volta la vera natura dell’accordo firmato lo scorso novembre a Riyadh per il passaggio dei poteri: una farsa. Prevedeva, infatti, l’esilio dell’ex-presidente dal momento della firma. Esilio che non era stato rispettato già la settimana successiva, con il ritorno di Saleh a Sanaa per circa un mese. Il tutto nell’indifferenza dei paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo, che avevano stilato la bozza di intesa e costretto il presidente a firmare.
Non è una novità che Saleh controlli ancora il paese. Lo fa per mano del vicepresidente Abdel Mansour Rabbo al-Hadi, al quale aveva ceduto i suoi poteri. Ora Hadi è diventato “il compromesso” tra maggioranza e opposizione ed è stato proposto dal parlamento come unico candidato alle elezioni presidenziali del prossimo 21 febbraio. Il vicepresidente ha recentemente dichiarato che “le elezioni rappresentano il primo passo verso un futuro più sicuro” , e proprio sulla sicurezza è incentrata la sua campagna elettorale, l’unica in questi giorni in un Paese in cui è in corso una “transizione democratica”. E’ per presenziare alla sua elezione ufficiale che Saleh tornerà a Sanaa.
Ma l’ex-presidente ha ancora nelle sue mani il controllo delle forze armate tramite parenti e funzionari lealisti. In particolare, un suo fratellastro è a capo delle forze aeree e il suo pupillo Hadi è stato appena nominato con decreto presidenziale (di Saleh, ndr) maresciallo capo: il più alto grado delle forze armate. Continuano a protestare i militari defezionisti e i manifestanti, chiedendo le dimissioni dei capi dell’esercito accusati di aver ucciso centinaia di persone nella rivolta durata quasi un anno. Una riforma prevista dall’accordo firmato a Riyadh che è rimasto, di fatto, lettera morta.
Hadi insiste sul fatto che le elezioni rappresentino “il modo migliore per uscire dalla crisi politica che avrebbe portato il paese alla guerra civile”. Ma è già guerra civile. E’ di ieri la notizia della morte di 10 persone negli ultimi scontri tra tribù sunnite e sciiti della confederazione degli Houthi nel governatorato di Saada, al confine con l’Arabia Saudita. Le vittime vanno ad aggiungersi alle centinaia già provocate dagli scontri degli scorsi 10 mesi, in cui la repressione degli sciiti del nord è stata guidata sia dall’esercito yemenita che da gruppi di sunniti introdotti dall’Arabia Saudita. Gli Houthi, come anche i separatisti del Sud, hanno annunciato che boicotteranno le elezioni per la presenza di un solo candidato. C’è il rischio che anche molti tra i manifestanti contrari al voto non si presentino alle urne: in questo modo, sarà più difficile che Hadi venga legittimato e possa guidare il paese verso alcune riforme cruciali, come quella della ristrutturazione dell’esercito. Un’opzione che però non spaventa gli Stati Uniti, forti sostenitori della transizione democratica in Yemen. Come dichiarato dall’ambasciatore Usa Gerald Fierstein, infatti, “sarà un giorno molto importante per lo Yemen. E siamo contenti che il consenso arrivi da ogni parte”.