Marie Colvin, l'ultimo réportage: qui non c'è pietà
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Marie Colvin, l'ultimo réportage: qui non c'è pietà

Il 21 febbraio aveva raccontato l'uccisione di un bambino, a Homs, città martire: "Credo che la cosa peggiore sia la spietatezza". Poi le hanno chiuso la bocca.

Marie Colvin, l'ultimo réportage: qui non c'è pietà
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23 Febbraio 2012 - 15.42


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di Silvia Resta

Marie Colvin, 54 anni, nata in America, giornalista, era una tosta. La veterana delle reporter di guerra.

Inviata per il Sunday Times, aveva un’esperienza pazzesca.

Da quasi trenta anni non c’era conflitto, guerra, calamità o rivolta nel mondo che non l’avessero vista testimone.

Lì, in prima fila, nelle trincee del giornalismo, tra la cronaca e la storia: negli anni ’90 era sopravvissuta per miracolo alle granate di Sarajevo. Per giorni era stata data per dispersa. Ma si era rifatta viva, con i suoi reportage.


Racconti del dramma di un popolo.

Poi la Cecenia, il Kossovo, l’Iraq, l’intifada palestinese, il Medioriente. In Libia durante la caduta di Gheddafi.
In mezzo alle piazze delle rivolte arabe. Lei c’era. Davanti al rischio, non si tirava indietro.

Perchè? Semplicemente perchè era il suo mestiere, il suo pane. Vedere e raccontare. Stare in mezzo allo strazio. E descrivere.

Sentire le urla, gli odori, i rumori delle artiglierie.

Sentire le voci della povera gente.
Coraggiosa. Marie era spavalda e curiosa, nel suo lavoro, ma mai incosciente. Una che non si arrendeva facile.

Nel 2001, durante le violenze in Sri Lanka, in un agguato dei cingalesi, rimase ferita da una scheggia di granata. Fu operata. Perse l’occhio sinistro e in Inghilterra vinse il premio come miglior inviato di guerra dell’anno.

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Dell’ occhio, se ne fece una ragione: da allora indossò una benda nera, con disinvoltura, e riprese a lavorare come sempre. Sempre in prima linea, nelle zone roventi del mondo. A raccontare con passione. A scrutare dal buco della chiave. A guardare nefandezze ed orrori. Anche con un occhio solo.

Fino a finire in quel buco nero della Siria, in quell’ inferno da cui, quel poco trapela, sembra roba di un altro mondo.
In pochi riescono a rompere la cortina del silenzio di un regime che si arrocca. Maria stava provando a fare questo. A illuminare agli occhi del mondo il torbido scenario del regime siriano, a dare la parola ai deboli, agli oppositori, ai ribelli, a quelli che non ci stanno.

Stava provando a raccontare quello che non si deve sapere.

Una bella donna, Marie: coraggiosa con semplicità, senza divismo. Senza superbia.

La sua vita: il dovere di raccontare. Da anni stava in Gran Bretagna.
“La nostra missione- aveva detto durante una cerimonia a Londra- è di raccontare gli orrori della guerra con accuratezza e senza pregiudizi.”

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Tra i reporter inviati di guerra, tutti la conoscevano.

Era generosa nel condividere informazioni e contatti.

Qualche ruga dell’ età che portava con disinvoltura, come la benda nera.
Quasi sempre sorridente e normale, nonostante quella benda nera.
A guardare le foto, sul suo viso di donna, un velo di asciutta consapevolezza di tutte le tragedie a cui aveva assistito.

Perché alla fine tutto quel rocambolare della vita, quel vagabondare per zone di dolore, tutti quei morti per strada, quella violenza che diventa barbarie, quegli occhi di madri e di bambini che ti chiedono aiuto… sono scatti che ti porti dentro per sempre.

Ieri, 21 febbraio 2012, da Homs, la città martire della rivolta siriana, la sua ultima intervista alla BBC: “I siriani non permettono a nessuno di allontanarsi. Chiunque si mette in strada, se non è coperto, rischia di essere colpito dalle granate. Ci sono cecchini in tutti i palazzi di Baba Amr.”

La sua testimonianza: aveva raccontato di aver assistito all’uccisione di un bambino.

“Credo che la cosa peggiore- diceva con la sua voce asciutta, calma, ma carica di emozione- sia la spietatezza: stanno colpendo edifici di civili senza alcuna pietà e senza attenzione. L’escalation di questa violenza è scioccante.” L’ ultimo collegamento. L’ultimo reportage. Il suo ultimo messaggio in bottiglia.
Poi le hanno chiuso la bocca.

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Marie è morta sotto un bombardamento: è morta in trappola, colpita da un razzo, mentre -sembra- tentava di fuggire, insieme ad altri reporter, da un attacco portato dai militari del regime di Bashar Assad. Un assalto a colpi di artiglieria ad un edificio che ospita un centro stampa dei ribelli.

Marie Colvin è morta. Insieme a un collega, fotografo francese.

Chissà quando la riporteranno, cadavere, a casa sua. Chissà se qualcuno penserà a fare la sua borsa, a metterci dentro le sue cose, i suoi vestiti, il telefonino, i taccuini, gli “effetti personali.

Marie è l’ ultima vittima dei reporter nelle zone di guerra. Siamo stanchi, siamo stanche di tenere questo conto.
E oggi siamo tristi. Oggi noi giornaliste ci sentiamo a lutto. E pensiamo a lei. A quello che -magari senza saperlo- ha lasciato, con il suo lavoro e con il suo esempio. Nella certezza che non sia stato inutile.

Onore a Marie Colvin, “signora reporter”.

Una semplice giornalista coraggio colpita dalla violenza dei mostri.

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