Maria ha soltanto 17 anni ma parla come una donna adulta. Il rischio di espulsione da Israele, che la sua famiglia deve affrontare dal 2006, l’ha fatta crescere in fretta. «Le autorità quell’anno notarono una lieve differenza tra il nome di mio padre nei documenti che gli vennero rilasciati quando entrò nel paese, quasi venti anni fa, e quello stampato sul suo passaporto. È solo un errore ma il ministero dell’interno ora lo accusa di essere entrato illegamente e vogliono buttarci fuori. Sappiamo però che questo è un problema secondario, il vero problema sono io», spiega la ragazza. «Il governo israeliano respinge l’idea di integrare i figli dei lavoratori stranieri, anche quelli che, come me, sono nati e cresciuti qui». Maria è una asiatica ma la sua vita è in Israele. «Non riesco a pensare a un altro paese dove poter vivere – aggiunge – parlo ebraico come gli israeliani, il mio modo di vivere è israeliano. Sono nata qui, come i miei compagni di scuola ebrei, perché mi trattano come un’aliena?».
È una domanda che ponevano un po’ tutti i bambini e ragazzi che sabato scorso hanno manifestato in Piazza Habima a Tel Aviv, assieme ai genitori, in gran parte filippini, contro la decisione del governo di sanare la posizione soltanto di 257 famiglie sulle 701 che avevano presentato una richiesta di legalizzazione. Un corteo di un migliaio di persone si è avviato lungo le strade del centro per scuotere la «città che non dorme mai» ma che abbandona a loro destino tanti lavoratori che ogni giorno puliscono migliaia di abitazioni e uffici e si prendono cura di tanti anziani. Fa eccezione un’esigua minoranza, in gran parte attivisti anche sul fronte dell’occupazione dei territori palestinesi, che si battono per impedire che tanti ragazzi, nati e cresciuti in Israele, vengano cacciati via. «Occorrerebbe una partecipazione maggiore per bloccare le decisioni prese dal ministro dell’interno Eli Yishai (del partito ortodosso Shas, ndr), che da anni combatte i migranti e i lavoratori asiatici giunti nel nostro paese», dice Noah Galili, responsabile di Israeli Children, una delle associazioni che assistono i bambini a rischio e le loro famiglie. Determinata a non arrendersi all’aut aut del governo è Rotem Ilan, di Hotline for Migrant Workers. «Dovranno passare sui nostri corpi – avverte – alcuni di questi bambini li considero figli miei, i loro genitori sono come fratelli, non permetterò mai la loro espulsione».
Identità ebraica in pericolo
Tuttavia per salvare le famiglie a rischio occorrerà molto di più della buona volontà e dell’impegno di Rotem, Noah e di altri attivisti. Il governo ha leggermente ammorbidito la sua linea ma resta deciso a procedere alle espulsioni. Il primo ministro, Benyamin Netanyahu, ha indicato più volte nell’immigrazione clandestina uno dei «principali problemi di Israele», perché, a suo dire, potenzialmente in grado di «mettere in pericolo l’identità ebraica del paese». Parole che ricordano quelle che i leader politici israeliani di solito riservano alla questione del ritorno dei profughi palestinesi, previsto dalla risoluzione 194 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. E per rendere ancora più chiara la sua linea, Netanyahu sta facendo costruire un nuovo “muro”, stavolta lungo la frontiera con l’Egitto, per bloccare gli ingressi clandestini dal Sinai di migranti e richiedenti asilo africani, in buona parte eritrei e sudanesi.
La questione dei figli dei lavoratori stranieri che corrono il rischio di essere espulsi parte da lontano. Si tratta di 1.200 bambini che sono rimasti tagliati fuori da una sanatoria governativa del 2006 che aveva garantito lo status giuridico a oltre 600 figli di immigrati. «Molti contratti di lavoro – spiega Rotem Ilan – impongono agli immigrati di non avere figli in Israele e alle donne incinte di uscire dal paese. Così, quando ha appreso che negli ultimi anni sono nati in Israele almeno 2mila bambini figli di migranti e lavoratori stranieri, il ministro Yishai ha affermato che i loro genitori li avrebbero usati per rimanere nel paese e che, pertanto, occorre procedere alle espulsioni senza esitazioni». Nel luglio 2010 fu deciso, sotto la pressione di associazioni e centri per i diritti umani, di concedere la residenza a tutti i bambini giunti in Israele quando avevano meno di 13 anni (e ai loro fratelli e sorelle più giovani), che hanno vissuto nel Paese almeno 5 anni e risultano iscritti a una delle scuole statali. «Abbiamo fatto una considerazione umanitaria e una sionista. Cerchiamo un modo – disse Netanyahu – per assorbire e far entrare nei nostri cuori bambini che sono stati cresciuti qui come israeliani. Per converso, non vogliamo creare un incentivo che porti a far entrare centinaia di migliaia di lavoratori illegali nel nostro paese». Quel giorno è cominciato l’inferno per tutti gli altri bambini che non rientrano nei criteri «umanitari-sionisti».
Se il figlio non rientra nei «criteri»
Nei giorni scorsi è stato deciso di «legalizzare» lo status di altri 257 ragazzi e i genitori dei 500 esclusi vivono nell’ansia. Tra di essi c’è la filippina Remedios Rolle, giunta 10 anni fa a Tel Aviv. Dopo aver assistito e pulito le abitazioni di dozzine di anziani, Remedios rischia di dover fare i bagagli perché il figlio Angelo non rientra nei «criteri». «È una situazione angosciante – ci spiega – nessuno ha saputo dirci se Angelo fa parte dei 257 bambini legalizzati e ogni sera andiamo a dormire temendo di ritrovarci la polizia in casa. Non so come spiegarlo a mio figlio che parla ebraico, vuole restare qui e non capisce perché intendono mandarlo nelle Filippine visto che lui è nato in Israele». A nulla sono servite le proteste della sezione locale Unicef che considera le espulsioni dei bambini una violazione della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia che Israele ha firmato con altri duecento Stati.
Hanno poco tempo a disposizione (appena un mese) per lasciare il paese invece i circa 7mila rifugiati sudsudanesi in Israele. Dopo la proclamazione di indipendenza del Sud Sudan, Netanyahu ha stabilito relazioni strettissime con il governo di Juba, mettendo però in chiaro che i «rapporti speciali» prevedono che i profughi giunti dal quel giovanissimo paese dovranno tornare a casa al più presto. Intanto l’unità speciale Oz, che fa capo al ministero dell’interno, pattuglia le strade di città e villaggi con il compito di bloccare 20mila clandestini nel 2012 e 100mila entro il 2013, sui 280mila che sarebbero presenti nel paese. Un numero impensabile da raggiungere ma la caccia al migrante comunque va avanti – specie in Corso Levinsky, la zona periferica di Tel Aviv dove si riuniscono gran parte degli africani, specie i sudanesi – grazie a nuove leggi, sempre più restrittive, anche nei confronti chi cerca asilo politico. Di recente la Knesset ha approvato, con soli otto contrari su 45, un emendamento al disegno di legge sulla cosiddetta «infiltrazione». D’ora in poi, se catturati, i migranti potranno passare in carcere dai 3 anni in su, a seconda del loro paese d’appartenenza. I profughi che vengono dal «nemico» Sudan potrebbero restare in prigione a tempo indeterminato, senza alcun processo. E chi li aiuta rischia fino a 15 anni di prigione e multe salatissime.