Anche in queste ore, in queste ore agghiaccianti e drammatiche in cui i corpi straziati di donne e bambini sgozzati vengono mostrati impudicamente al mondo, la dittatura di Assad non sembra ancora essere definitivamente travolta dalla condanna mondiale. Certo da sempre, e tanto più in quest’epoca, le immagini dai vari fronti di guerra, sono usate come forma di propaganda, di richiesta d’aiuto e di sostegno a livello internazionale dalle varie parti in lotta. Un dato che forse è vero risulta essere fondato anche questa volta. Quelle immagini ci raccontano infatti una realtà che facciamo finta di non vedere da quasi un anno. Sono una richiesta di aiuto, di mobilitazione, di allarme per le nostre coscienze.
Da quando un anno fa, sul Mondo di Annibale, abbiamo cominciato a seguire la rivoluzione siriana, sappiamo -e ne abbiamo dato notizia- che i bambini sono vittime predilette delle forze repressive della dittatura siriana. E’ una violenza brutale che vuole annichilire gli oppositori, indebolirne la resistenza morale, indurli alla disperazione o a un a disperata reazione armata.
Nelle settimane scorse le varie componenti dell’opposizione siriana si sono ritrovate a Roma su invito della Comunità di Sant’Egidio dove hanno provato a spiegare la mondo, e alla nostra opinione pubblica sorda e incosciente, quanto stava avvenendo nel Paese e il loro punto di vista. In tanti, fra di loro, hanno ripetuto un ‘no’ chiaro a un possibile intervento militare esterno, quindi s opposti alla militarizzazione del conflitto. Tuttavia hanno chiesto all’Europa, a noi, all’opinione pubblica, una mobilitazione massiccia a livello diplomatico per isolare sempre di più il regime e fare pressione, contemporaneamente, su quei governi, a cominciare da Russia e Cina, che possono provare a smuovere Bashar al Assad.
Il tutto avviene, paradossalmente, mentre in Afghanistan uno o più soldati americani hanno fatto strage di innocenti casa per casa e in un non certo sorprendente silenzio damasceno sui bombardamenti di Gaza. I fatti, a questo punto, ci propongono una lezione quasi elementare che solo menti ottenebrate non vedono: il sostegno politico, diplomatico, morale, civile dell’informazione alle rivolte interne dei paesi arabi è l’unico antidoto democratico all’intervento militare di forze esterne che quasi certamente può produrre una crisi infinita in un contesto complesso dove interessi diversi s’incrociano e si confrontano, alle volte marciando divisi per colpire insieme.
D’altro canto il movimento per la pace è morto da tempo. Almeno da quando una folla immensa di giovani è scesa in piazza per due volte in Iran chiedendo riforme e democrazia ed è stata lasciata sola, abbandonata al suo destino. In effetti la lunga guerra irachena ha lasciato un fiume di morti dietro di sé, fra questi anche il senso critico, la libertà di coscienza, la capacità di vedere oltre parametri ideologici stravecchi. Lo scontro di civiltà costruito a tavolino dalla peggiore destra americana della storia, naufraga miseramente in questi lunghi mesi in cui i popoli arabi provano a riprendersi il loro destino e l’Islam riapre faticosamente e non senza contraddizioni al suo interno, il dialogo con la modernità, le culture di cui essa è portatrice, le sue grandi possibilità.
Che a non comprendere questo decisivo passaggio storico siano spesso le forze di sinistra mette una certa malinconia, ma è anche il segno, per chi non si lascia andare alle nostalgie, che le categorie della sinistra vanno ricostruite non più su antiche radici, ma su quello che ormai appare un campo di macerie.
Il tema centrale dei diritti umani e dei diritti civili e sociali, della loro valenza globale come fattori di una nuova forma di interdipendenza fra governi, organizzazioni internazionali e continentali, è sempre di più il nodo cui mettere mano. E’ un principio, una enorme risorsa, che la cultura democratica dell’Occidente deve mettere in circolo verso tutti quei mondi in cui la negazione dei diritti dell’individuo e dei diritti di cittadinanza in nome di false e ideologiche identità collettive, è stato un fattore determinante di oppressione e negazione della libertà.