Amnesty denuncia: in Siria torture sistematiche
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Amnesty denuncia: in Siria torture sistematiche

Nel rapporto ‘Volevo morire: parlano i sopravvissuti’, l’organizzazione denuncia i maltrattamenti subiti dalle persone arrestate ad un anno dall’inizio della rivolta.

Amnesty denuncia: in Siria torture sistematiche
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14 Marzo 2012 - 16.38


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Pestati a suon di pugni e bastoni. Interrogatori appesi a un gancio con i piedi nel vuoto. Scariche elettriche e pelle strappata con le tenaglie. Sono alcuni dei 31 metodi di tortura documentati in Siria da Amnesty International, nel nuovo rapporto diffuso oggi sui maltrattamenti subiti dalle persone arrestate in massa ad un anno dall’inizio della rivolta contro il regime del presidente Bashar al-Assad. Un livello ‘’che non si vedeva da anni e che ricorda il periodo nero degli anni Settanta e Ottanta’’.

Intitolato “Volevo morire: parlano i sopravvissuti alla tortura in Siria”, il Rapporto documenta i metodi di tortura praticati dalle forze di sicurezza, dai militari e dalle shabiha (le bande armate filo-governative) attraverso i racconti di testimoni e vittime che l’organizzazione per i diritti umani ha incontrato in Giordania nel febbraio di quest’anno.

“L’esperienza fatta dalle tante persone arrestate nel corso dell’ultimo anno è ora molto simile a quella fatta dai prigionieri sotto l’ex presidente Hafez al-Assad: un incubo di torture sistematiche” – ha dichiarato Ann Harrison, vicedirettrice ad interim del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. “Le testimonianze che abbiamo ascoltato descrivono dall’interno un sistema di detenzione e interrogatori che, a un anno dall’inizio delle proteste, ha il principale obiettivo di degradare, umiliare e mettere a tacere col terrore le vittime”.

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I detenuti vengono sottoposti a un trattamento standard. Molte vittime hanno dichiarato di essere state picchiate al momento dell’arresto. Il pestaggio è proseguito con l’haflet al-istiqbal (“festa di benvenuto”), all’arrivo nel centro di detenzione, con pugni e percosse con bastoni, calci dei fucili, fruste e cavi di corda intrecciata. I nuovi arrivati vengono solitamente lasciati in mutande e talvolta tenuti all’aperto anche per 24 ore.

Il momento di maggior pericolo è tuttavia quello dell’interrogatorio. Parecchi sopravvissuti alla tortura hanno descritto ad Amnesty International la tecnica del dulab (“pneumatico”): il detenuto è infilato dentro a uno pneumatico da camion, spesso sospeso da terra, e viene picchiato, anche con cavi e bastoni.

In aumento le testimonianze sullo shabeh: il detenuto è appeso a un gancio o ad altro attrezzo in modo che i piedi fluttuino nel vuoto o le loro dita tocchino a malapena il pavimento; spesso, in questa posizione, viene picchiato.

Karim, 18 anni, uno studente di al-Taybeh (provincia di Dera’a) ha raccontato ad Amnesty International che, nel dicembre 2011, presso la sede di Dera’a dei servizi segreti dell’Aeronautica, le persone che lo stavano interrogando gli hanno strappato la pelle dalle gambe usando delle tenaglie.

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Risulta ampio anche l’uso delle scariche elettriche durante gli interrogatori. Tre i metodi documentati: la vittima o il pavimento della cella vengono bagnati d’acqua e poi viene sprigionata l’elettricità; la “sedia elettrica”, con gli elettrodi applicati alle parti del corpo; e l’uso di pungoli elettrici.

Nell’ultimo anno risultano in aumento le torture basate sulla violenza sessuale. “Tareq” ha riferito ad Amnesty International che, nel luglio 2011, mentre era detenuto nella sede dei servizi segreti militari di Kafr Sousseh, a Damasco, è stato costretto ad assistere allo stupro di un altro prigioniero: “Gli hanno tirato giù i pantaloni. Aveva una ferita sulla coscia sinistra. L’ufficiale lo ha violentato contro il muro. Lui non poteva fare altro che piangere e batteva la testa contro il muro”.

Per Amnesty International, le testimonianze dei sopravvissuti alla tortura costituiscono un’ulteriore prova dei crimini contro l’umanità commessi in Siria. Da qui l’auspicio che la comunità internazionale voglia condividere la responsabilità di indagare e punire crimini contro l’umanità nei tribunali nazionali, attraverso processi equi e senza il ricorso alla pena di morte.

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