Quando è la vittima a finire dietro le sbarre. E’ il titolo di un “reality” che ha per protagoniste oltre quattrocento donne afghane, per la stragrande maggioranza giovani o giovanissime, incarcerate per «crimini morali». Human Rights Watch (Hrw) ha presentato oggi a Kabul un rapporto intitolato: «I had to run away», sono dovuta fuggire, basato su interviste a 58 donne realizzate in carceri e centri di detenzione giovanile in Afghanistan. Donne scappate da un padre o un marito violento, da una famiglia che voleva costringerle a matrimoni forzati o venderle. Anche se vittime di violenza sessuale le afghane possono finire in galera. Sono in genere le famiglie o i mariti a denunciarne la fuga, poi la polizia le arresta. Se non sono ammazzate prima, le donne sono mandate in galera. «Piuttosto che trovare un supporto dalla polizia, dalle istituzioni della magistratura e dai funzionari del governo, le donne che cercano di fuggire a situazioni di abuso spesso incontrano apatia, derisione o sanzioni penale», sostiene il rapporto di Hrw. In Afghanistan, si legge nel documento, le donne sono vittime due volte: «La discriminazione è dilagante e abusi terribili, come violenze domestiche e matrimoni minorili forzati, sono raramente puniti». Le donne rischiano anche essere uccise o subire altre forme di abuso una volta uscite di prigione. Hrw ha rivolto un appello a Stati Uniti e alleati di fare pressioni sul governo di Karzai per mettere fine alla «detenzione illegale di donne e ragazze, vittime piuttosto che criminali».
Chi scrive ha toccato con mano questa situazione incontrando le stesse donne nelle carceri femminili e minorili di Kabul e Herat o nascoste in rifugi. Vittime di violenza, finite dietro le sbarre nel tentativo di sfuggirvi. Sotto molti aspetti le recluse si sentono più libere “dentro” che fuori, in una società come quella afghana. La cosa non sorprende se si riflette sulle ragioni per cui sono state condannate. Ecco alcuni esempi.
Gulsun è entrata in carcere a Herat nemmeno ventenne. Ha la carnagione scura e grandi occhi neri. Racconta di essere scappata da trafficanti del Baluchistan, cui era stata venduta da suo marito per l’equivalente di quattromila dollari. La polizia l’ha scovata durante la fuga. Il marito l’ha fatta arrestare dicendo che aveva abbandonato il tetto coniugale. Gulsun gli era stata data in sposa quando aveva dodici anni.
Nella stessa struttura carceraria vive Sabar, ventotto, considerata una poco di buono a causa del suo carattere vivace, a tratti sfrontato, e soprattutto per aver concepito un figlio dopo il divorzio dal marito. I vicini l’hanno denunciata alla polizia perché sapevano del suo debole per il vino (che si acquista sottobanco in Afghanistan). Trovato il corpo del reato a casa sua (la bottiglia), Sabar è stata spedita in carcere per due anni insieme a sua figlia Nasri di un anno e sei mesi.
A “Badam Bagh” o “giardino delle mandorle”, il carcere femminile aperto a Kabul grazie all’intervento della Cooperazione italiana (una salvezza per molte donne che prima erano recluse nell’inferno di Pul-e-Charkhi), le storie sono simili: fuga da casa, divorzio, gravidanza illegittima, anche in seguito a uno stupro.
«E’ scioccante che dieci anni dopo la caduta dei talebani, le donne e le ragazze siano ancora imprigionate per essere scappate da violenze domestiche o da matrimoni forzati», ha dichiarato in occasione della presentazione del rapporto Kenneth Roth di Hrw. «I giudici spesso emettono le sentenze solo sulla base delle “confessioni” rilasciate in assenza di legali e firmate senza essere state lette da donne che non sanno né leggere né scrivere. Dopo la condanna, le donne affrontano lunghe condanne detentive, in alcuni casi superiori ai 10 anni», ha aggiunto Roth.
Se non fosse ancora chiaro, in Afghanistan i crimini morali riguardano esclusivamente le donne. Si tratta di flagranti violazioni dei più basilari diritti umani. Eppure nessun governo chiede conto della condizione delle detenute a Hamid Karzai, che magnanimo, interviene di tanto in tanto per graziarne qualcuna, tanto per dare un contentino alle Organizzazioni internazionali che sollevano alcuni casi presso il suo ufficio di presidenza.
L’Afghanistan liberato dai talebani è del resto uno Stato democratico in cui il Presidente Karzai ha da poco approvato un editto del Consiglio degli Ulema, principale autorità religiosa del Paese, in cui si riconosce la libertà di picchiare le donne se la cosa avviene in conformità ai dettami della sharia (ovvero dell’interpretazione della stessa che vige in Afghanistan).
Per tutte queste ragioni ci sentiamo solidali con Leyla Obeid, incontrata in carcere a Heart, dove sconta una condanna per omicidio. Leyla ha passato la settantina. Si è addossata la colpa dell’omicidio di suo marito, commesso in realtà da suo figlio Juneil. L’uomo sposato da Leyla quando era ancora una ragazzina, aveva abusato della giovane nuora Aziza, moglie del ventenne Juneil. L’anziana ma arzilla Leyla si rammarica solo del fatto che il figlio sia stato messo in galera in quanto suo complice, perché hanno sotterrato insieme il cadavere del marito, poi ritrovato dalla polizia.
Quando racconta la sua vicenda, Leyla cela uno sguardo sorridente dietro spessi occhiali da vista. Uno sguardo che tradisce una punta di soddisfazione. E se le capitassero per le mani gli altri malfattori che hanno fatto male alle giovani che tiene sotto la sua ala protettrice in carcere, ne farebbe polpette, giura.