Si allarga di giorno in giorno la mappa dei governi messi in ginocchio dalla recessione e dalle politiche draconiane a cui l’Unione Europea a guida tedesca si affida per salvare la moneta unica dal rischio dissoluzione. In attesa del 6 maggio, data in cui sia la Francia che la Grecia saranno chiamate ad un appuntamento alle urne che si annuncia decisivo per il futuro dell’Unione, la discussione su una serie di misure antideficit a base di tagli al welfare e di nuove tasse ha fatto saltare il fragile equilibrio su cui si reggeva il governo olandese, grande alleato di Berlino nell’imporre il rigore di bilancio ai partner europei.
E le proteste di piazza contro l’austerity non risparmiano nè la Slovenia, teatro dello sciopero dei dipendenti pubblici più imponente dalla disgregazione dell’ex Jugoslavia, nè la Repubblica Ceca, dove la coalizione governativa di centrodestra non ha più i numeri per far passare la manovra finanziaria più dura degli ultimi anni.
Sull’onda del successo raccolto dal Front National al primo turno delle elezioni presidenziali francesi, Geert Wilders, l’eccentrico leader del raggruppamento populista dell’estrema destra olandese Pvv, ha deciso di staccare la spina all’esecutivo di minoranza guidato dal liberale Mark Rutte, nel momento più delicato dell’interminabile trattativa sui tagli al sistema sanitario e sull’innalzamento dell’Iva: 16 miliardi di euro che consentiranno ai Paesi Bassi di abbassare il deficit al 3 per cento come richiesto da Bruxelles.
Noto per le polemiche a sfondo xenofobo e razzista che hanno accompagnato la sua ascesa, Wilders negli ultimi tempi ha accentuato i toni antieuropei, fino a paventare la possibilità di indire un referendum per l’uscita del Paese dalla moneta unica. Dopo essersi accordato in extremis con le opposizioni per dare il via libera ai provvedimenti che hanno mandato in crisi il suo governo, Rutte ha gettato la spugna e fissato nuove elezioni per il 12 settembre. La caduta dell’ex manager Unilever in ottimi rapporti con Wall Street rappresenta un colpo durissimo per la Germania di Angela Merkel e per i sostenitori della disciplina di bilancio ad ogni costo.
Ma i tagli alla spesa pubblica hanno dato vita ad una massiccia contestazione anche nella piccola Slovenia, dove oltre 100.000 lavoratori del settore pubblico hanno paralizzato il Paese, come non accadeva dal 1991. I principali sindacati, compreso quello delle forze dell’ordine, accusano il premier Janez Jansa, spalleggiato dalla Commissione Europea e dalla Bce, di voler impoverire le fasce più deboli della popolazione in nome del pareggio di bilancio.
La manovra finanziaria sulla quale il governo ha posto la fiducia comprende tagli alla scuola, all’istruzione, agli assegni sociali, alle spese militari e alle rappresentanze diplomatiche, la riduzione dello stipendio per i dipendenti pubblici e una riforma del sistema pensionistico senza precedenti. Jansa, uscito vittorioso dalle elezioni del 2011 alla testa di una maggioranza di centrodestra, ha minacciato di dimettersi se il piano di austerità dovesse trovare ostacoli in parlamento, mentre i sindacati puntano ad indire un referendum popolare per affossarlo. Secondo i sondaggi rilanciati dai maggiori quotidiani sloveni, il premier avrebbe perso il cinquanta per cento della popolarità in un solo mese e la sua politica economica sarebbe approvata soltanto da un elettore su cinque.
Stessa scena quattrocento chilometri più a nord, in Repubblica Ceca, dove la coalizione di centrodestra guidata da Petr Necas è entrata virtualmente in crisi a causa delle misure di austerità imposte da Bruxelles. Sull’onda della più grande manifestazione mai vista a Praga dai tempi della Rivoluzione di velluto del 1989 e degli scandali che hanno condotto alla scissione del partito centrista Affari Pubblici, la solida maggioranza uscita dalle elezioni del 2010 è chiamata ad affrontare un voto di fiducia dal quale rischia di essere spazzata via.
Il fatto che Necas non disporrebbe in ogni caso dei voti per far passare una manovra di bilancio lacrime e sangue apre la strada ad elezioni anticipate che, secondo i sondaggi, premierebbero solo parzialmente l’opposizione socialdemocratica, regalando percentuali crescenti a raggruppamenti di matrice antieuropea come i Pirati e il Partito Comunista.
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