Nella Giornata Internazionale dei Lavoratori, a un anno e mezzo dalle proteste scoppiate in Tunisia a causa del malcontento economico diffuso e divulgatesi rapidamente nel restante mondo arabo sotto l’ottimistica accezione di Primavera Araba, è opportuno parlare della figura femminile come dell’artefice dei cambiamenti in corso ma mai fin ora oggetto di un’inversione di rotta nello statico sistema politico mediorientale. Uno dei più evidenti traguardi ottenuti nel corso della Primavera Araba, di là della riabilitazione del termine spesso negativamente stereotipato di ‘arabo’, è il ripensamento del ruolo della donna araba all’interno del poco dinamico contesto sociale d’appartenenza.
Come la vice-presidente del Parlamento tunisino Mehrezia Labidi scrive sul The Guardian, “Ben lontane dall’essere spettatrici neutrali e passive, le donne arabe, dalla Tunisia alla Siria, fino ad includere tutte le città arabe dove i cittadini sono usciti – e stanno uscendo – allo scoperto per invocare il loro diritto alla libertà e alla dignità, hanno partecipato attivamente in tutti i livelli e aree della rivoluzione. Hanno pianificato, dimostrato e raggiunto il mondo esterno; sono state ferite e uccise. Hanno rovesciato i dittatori e ora sono occupate nel ricostruire i loro rispettivi paesi.” Se dal punto di vista sociale è opportuno dire che la donna araba ha migliorato gradualmente il suo status all’interno della scena statale di riferimento, e ciò a partire dalla tornata conservatrice, in senso autoritario o religioso, degli anni ’70 e fino ai movimenti di protesta dei giorni nostri, è dal punto di vista politico che non sembra essersi ritagliata pari considerazione.
Citando le parole di Christiane Amanpoure riportate dall’emittente inglese Cnn, “Le donne che hanno avuto un ruolo prominente nel rovesciare le dittature potranno mai ottenere i diritti per i quali hanno fatto cotanti sacrifici, e rischiato le loro vite, in Tunisia, come in Egitto, Libia e, oggi, in Siria? Una delle cose più importanti da riconoscere è che per decenni l’Onu ha dato spiegazioni sul perché il mondo arabo e musulmano si trovi così indietro rispetto agli altri nonostante le sue ricche risorse naturali: c’è mancanza di libertà, democrazia, ma più ancora c’è mancanza di partecipazione femminile.”
In un quadro politico non da capogiro, se la percentuale di donne con cariche ministeriali in Europa si conta al 15%, nel Pacifico all’11% e in Asia al 10%, negli stati arabi non supera il 7%. Sebbene le donne arabe siano state in prima linea nei movimenti di rivolta atti a rovesciare poteri elitari e autoritari in voga da decenni, guidando proteste, marce e campagne per mezzo di social media, non si può dire siano state in grado di ritagliarsi uno spazio politico adeguato e di farsi protagoniste di quel panorama politico che si sta formando e che potrebbe plasmare l’incerto futuro di molti tra i paesi arabi.
Esaminando brevemente la situazione dal punto di vista della partecipazione politica femminile e della sua rappresentazione negli stati del Medio Oriente e Nord Africa (Mena), i miglioramenti e sviluppi rilevati in Tunisia, Marocco, Libia o Egitto, non sono tali da creare entusiasmo. La vittoria schiacciante del partito islamista Ennahda all’Assemblea Costituente della Tunisia è stata accompagnata dal giuramento dei suoi membri sul Codice dello Statuto Personale del 1956, secondo cui donne e uomini hanno pari diritti in quanto cittadini. Ciononostante, sono emersi alcuni timori da parte di emancipate insegnanti e studentesse universitarie a seguito delle non troppo velate intimidazioni da parte di frange conservatrici a coprire il capo e vestire in modo più decoroso, e sono emerse le preoccupazioni di alcune donne secolari che il novello governo religioso possa modificare leggi laiche radicate e assimilate.
In Marocco sono state introdotte le quote per le parlamentari e ciò ha visto un incremento di sei punti percentuali nel numero di donne legislatori nello scorso 2011. Che il paese che dovrebbe assurgere a “esempio per gli stati musulmani che vogliano integrarsi nella società moderna,” com’è stato definito nel 2005 da analisti occidentali, sia 129° su 135 stati presi in esame in un report recente sul Divario Globale tra Generi, e che conti 41,098 ragazze maritate al di sotto della soglia della maggiore età, non gli fa certo onore.
In Libia è passata una legge elettorale secondo cui il Congresso Nazionale Generale dev’essere composto da 200 membri eletti liberamente e direttamente, e richiede parità di genere nelle liste di 80 tra queste poltrone. Prossimamente sollevate – così ha detto il capo del governo di transizione Mustafa Abdel Jalil – saranno le restrizioni introdotte da Muammar Qaddafi sulla poligamia: donne vittime di attacchi sessuali, o sospettate di ‘crimini morali,’ non saranno più scaricate in ‘centri di riabilitazione sociale’, in tutto simili a prigioni, aspettando di essere liberate da un fortuito promesso sposo.
In Egitto la nuova legge sull’Esercizio dei Diritti Politici ha rettificato la precedente quota per le donne e ha sancito come ogni partito politico debba includere una donna nella lista dei candidati, senza prevedere che le donne possano però ricoprire posti chiave. Paradossalmente, alle elezioni del gennaio scorso si è visto un calo della presenza politica femminile al parlamento dal 12% al 2%. In Egitto la bassa rappresentanza politica femminile si accompagna a una certa dose di misoginia sia nel privato che nel pubblico. Se un sondaggio condotto nel 2008 dal Centro Egiziano per i Diritti delle Donne metteva nero su bianco come l’80% delle donne egiziane fosse stata vittima di molestie sessuali, la giunta militare sostituitasi al Presidente Hosni Mubarak si è distinta – e vergognosamente – per l’umiliante pratica dei ‘test di verginità’ con cui ha vessato numerose attiviste egiziane scese in piazza.
Al fondo della piramide sessuale di Mena e Golfo, secondo le statistiche ufficiali, c’è un sempre il più traballante Yemen, che conta il 55% di donne illetterate, il 79% di donne estromesso dalla forza lavoro e un’unica rappresentante in un parlamento dalle 300 unità maschili. Ma, se non altro, alle donne yemenite è concessa una forma di libertà negata altrove: la guida.
“In Arabia Saudita a una donna che ha infranto il divieto di guidare è stata inflitta una pena corporale di 10 frustrate e ha dovuto richiedere il perdono regale,” dice Mona Eltahawy nel suo discusso pezzo intitolato Perché ci odiano? comparso su Foreign Policy qualche giorno addietro, “In Arabia Saudita le donne non possono votare o concorrere alle elezioni, ed è considerato un ‘progresso’ quel decreto reale che ha promesso loro la partecipazione in simboliche elezioni locali che avranno luogo nel ben lontano 2015!” Arabia Saudita, che venera imperturbabilmente un dio misogino per il quale mai pagherà le conseguenze, e che ha la duplice fortuna di essere al contempo esteso bacino petrolifero e culla dei due luoghi più sacri all’Islam, Mecca e Medina.
Il punto focale del lungo e itinerante articolo della giornalista, e nota femminista egiziana trapiantata negli Stati Uniti, Eltahawy è che “gli uomini in Medio Oriente odiano le donne” e, pertanto, “nominami un paese arabo e reciterò una litania di abusi, alimentati da una miscela tossica di cultura e religione, che in pochi sembrano voler o poter districare.” Forse la visione della Eltahawy è stereotipata, come hanno commentato in molti. Ma l’accanimento delle sfere di potere maschili nei confronti dell’universo femminile nel MENA non può non derivare da un certo timore – intensificatosi in quest’annata di venti rivoluzionari – di alterare il vantaggioso disequilibrio tra sessi creatasi dopo decenni di maschilisti governi autoritari, o religiosi.
Ciò va ad aggiungersi alle considerazioni fatte da due ricercatrici di studi femministi, Alison Assiter e Judith Butler, secondo cui il senso di legittimazione dato alle donne nella regione spesso non va di pari passo al concetto di ‘uguaglianza’ tra sessi. E’ necessario liberarsi dal preconcetto tutto occidentale che il riconoscimento del valore sociale della donna, come trascinatrice di masse, porti con sé la decisione di innalzarle all’interno della piramide politica nazionale. Non di meno, se la bassa partecipazione delle donne arabe in politica, come anche nel lavoro, ha un impatto negativo sull’andamento dell’estesa area presa in esame, non bisogna pensare alle donne stesse come a individui docili e remissivi ma cercare di comprenderne l’importanza strutturale all’interno della rispettiva società.
“Amina Filali – la sedicenne ragazza marocchina che ha bevuto il veleno dopo essere stata costretta a sposare il suo stupratore – è il nostro Bouazizi,” dice Eltahawy. “Salwa el-Husseini, la prima donna egiziana a pronunciarsi contro ‘i test di virginità’; Samira Ibrahim, la prima a citare in giudizio; e Rasha Abdel Rahman, che ha testimoniato al suo fianco – loro sono i nostri Bouazizi”. E ancora, Asma Mahfouz, giovane egiziana dal capo coperto che ha intimato su Facebook il suo popolo a scendere in Piazza Tahrir per chiedere diritti e dignità, o Tawakkol Karman, yemenita vincitrice del premio Nobel per la Pace in virtù del suo coraggioso ruolo nei sollevamenti popolari nazionali, ‘sono i loro Bouazizi’. Se le sommosse arabe hanno avuto simbolicamente inizio dall’immolazione del giovane disperato venditore tunisino Bouazizi, è plausibile pensare che possano terminare con una presa di posizione forte e risolutiva da parte, e a favore, delle donne arabe tutte.