Una tradizione secolare, un’industria che impiegava centinaia di lavoratori, un’economia distrutta che ora cerca di ricostruirsi tra Intifada e occupazione. È l’industria del sapone di Nablus, arte tradizionale che oggi sta vivendo un nuovo sviluppo aprendosi al mercato estero. Entriamo nel piccolo villaggio di Beit Furik, alle porte di Nablus, strada sterrata e bambini che giocano a pallone. Arriviamo alla Nablus Soap, una delle quattro fabbriche di sapone ancora attive in città. “La mia famiglia – racconta a Nena News Mojtaba Tbeleh, manager dell’azienda – produce sapone da 400 anni. E fino ad oggi abbiamo sempre e solo utilizzato materiali naturali: olio d’oliva, erbe, miele, olio di palma, latte, lavanda, limone, cannella”.
All’interno dell’azienda un gruppo di giovani sta lavorando alla produzione di sapone per la lavanderia. “Il lavoro dipende dalla stagione, in estate gli impiegati sono 20-25, d’inverno 10-15. Negli anni ’90 la competizione internazionale ha indebolito il mercato di Nablus, per questo ho deciso di aprirmi all’esterno e di produrre sapone che seguisse i gusti dei mercati esteri”. Oggi la Nablus Soap produce 42 diversi tipi di sapone: per il bagno, per il viso, per la lavanderia, per i capelli. Una produzione che raggiunge le 100 tonnellate all’anno solo per le esportazioni verso l’Europa, gli Stati Uniti, la Cina, l’India, il Giappone e i Paesi arabi.
Un successo viste le condizioni in cui le aziende palestinesi sono costrette a sopravvivere. “Per l’export verso i Paesi arabi – spiega Tbeleh – passiamo per la Giordania, molto più semplice. Ma le spedizioni verso il resto del mondo devono transitare per Israele, per i porti di Haifa e Ashdod. I regolamenti e le condizioni che le autorità israeliane ci impongono sono terribili. Cambiano di volta in volta, senza regole scritte. Solo per metterci in difficoltà, per bloccare le vendite”. Se la quantità autorizzata alla spedizione non ha limiti di sorta, i problemi al confine nascono con la continua richiesta di nuovi permessi: “Un esempio? Lo scorso mese mi hanno impedito di esportare uno stock di prodotti perché la dicitura diceva ‘Made in Palestine’. È sempre stato così, da anni. Ma stavolta le autorità israeliane al confine mi hanno imposto di apporre la dicitura ‘Palestinian Authority’. Ora è impossibile esportare se non si ha tale marchio”.
“In inverno – prosegue Mojtaba Tbeleh – si rifiutano di porre i prodotti palestinesi sotto le tettoie al porto. Se piove, perdiamo tutto il carico. Nella stagione fredda succede spesso che debba buttare tutto perché la pioggia ha distrutto il sapone”. Senza contare ritardi e attese, controlli della sicurezza che durano anche settimane. “In quanto imprenditore, possiedo la Business Card, uno speciale permesso con cui posso passare da Tel Aviv, sebbene sia residente in Cisgiordania. Sono andato una volta all’aeroporto di Ben Gurion, non lo farò mai più: ho subito controlli, perquisizioni e interrogatori umilianti, disumani”. Nonostante tutto Mojtaba e la sua famiglia non si fermano. Hanno imparato a superare gli ostacoli, uno dopo l’altro, e oggi sono la più grande fabbrica di sapone di Nablus. Un giro d’affari considerevole, prodotti richiesti in tutto il mondo. Il successo è arrivato dopo la Seconda Intifada.
“Siamo riusciti a sopravvivere a anni difficili, in cui il lavoro si era quasi azzerato. Tra il 2000 e il 2007 Nablus era una galera: impossibile entrare e uscire normalmente. La nostra azienda ha subito un crollo drastico: producevamo il 30-35% del nostro potenziale. Accadeva che per due settimane o un mese non fossimo autorizzati ad entrare in fabbrica perché bloccavano le strade e l’accesso a Beit Furik attraverso il checkpoint. Non ho voluto licenziare nessuno, ma l’azienda ha perso tantissimo: considerate che in sette anni abbiamo effettivamente lavorato solo due anni”. I coprifuoco prolungati, le restrizioni al movimento, l’impossibilità di entrare e uscire da Nablus per mesi, i continui controlli e i raid dell’esercito israeliano hanno strangolato l’economia della città per anni. Portando alla chiusura delle tante piccole fabbriche di sapone, tradizionalmente zoccolo duro della produzione di Nablus.
“Negli anni ’70 – spiega a Nena News Namir Taher al-Khayat, direttore generale della Camera di Commercio della città – le fabbriche di sapone a Nablus erano 36. A causa dell’occupazione israeliana della Cisgiordania, abbiamo assistito ad un crollo della produzione: tanti gli ostacoli posti dall’occupante, dai documenti necessari al lavoro a quelli per la registrazione d’impresa fino alle restrizioni all’importazione di soda, necessaria a produrre sapone”. “Poi è arrivata la Seconda Intifada – continua al-Khayat – e le poche fabbriche ancora aperte sono entrate in crisi. Nel 2002 la città è stata invasa dall’esercito israeliano: cinque fabbriche sono state letteralmente distrutte. Oggi ne restano quattro ancora in vita: la Touqam, la Nabulsi, la Tbeleh e la Jaqah”.
“La chiusura della maggior parte delle fabbriche di sapone ha provocato un elevato numero di disoccupati. Ogni fase del processo di produzione richiede almeno due lavoratori, e le fasi sono cinque: le fabbriche di sapone avevano mediamente 10-15 lavoratori. Con la chiusura di 32 aziende dagli anni ’70 ad oggi, sono stati licenziati oltre 350 lavoratori. Anche la mia famiglia aveva una fabbrica di sapone, ma è stata costretta a chiudere i battenti negli anni ’90 per la mancanza dei certificati richiesti dalle autorità israeliane”.
“Quello che le poche famiglie ancora attive stanno facendo oggi – conclude al-Khayat – è mantenere l’originalità del prodotto modificando e sviluppando i metodi di lavorazione. Il lavoro è sempre rigorosamente manuale e i prodotti utilizzati naturali. Ma le fabbriche hanno modificato gli incartamenti, hanno creato saponi dai nuovi sapori, attirando così l’attenzione di numerosissimi mercati esteri. Il sapone di Nablus arriva oggi sugli scaffali dei negozi cinesi, giapponesi, americani, europei”.
Argomenti: Palestina