La rivoluzione culturale di Obama
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La rivoluzione culturale di Obama

Una vittoria storica: i numeri dicono che Romney è stato sconfitto quasi ovunque. Ma Obama, soprattutto, ha compiuto una rivoluzione culturale e sociale nell'elettorato.

La rivoluzione culturale di Obama
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7 Novembre 2012 - 12.00


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di Francesco Peloso

I numeri prima di tutto: il presidente uscente degli Stati Uniti ha conquistato oltre 300 grandi elettori, forse addirittura 330 secondo le proiezioni ancora in corso. Praticamente tutti gli Stati in bilico, quelli decisivi per la vittoria finale, hanno scelto Obama. E non basta ripetere che il Congresso sia ancora a maggioranza repubblicana mentre il Senato resta invece nelle mani dei democratici, per riequilibrare la partita. E’ stata una vittoria storica quella del presidente democratico combattuta in condizioni difficilissime. Una crisi economica di dimensioni gigantesche – nata proprio negli Stati Uniti nell’éra di George W. Bush – è stata l’ostacolo principale ceh ha dovuto superare, ma c’è anche molto altro.

I repubblicani, negli ultimi due anni (cioè da quando hanno ripreso il controllo della Camera con le elezioni di mid-term) hanno di fatto bloccato i lavori del Congresso con un ostruzionismo che, secondo tutti gli osservatori, non ha avuto precedenti nella storia americana. L’obiettivo era quello di rovesciare una presidenza dipinta come ‘antiamericana’ e contraria ai valori fondanti del Paese, una strategia condita con una discreta dose di razzismo e poggiata sulla veemenza fondamentalista del ‘Tea Party’, sostenuta a spada tratta da una Chiesa cattolica mai tanto impegnata in una campagna elettorale e naturalmente spalleggiata dal mondo della finanza che Oltreocenano conta qualcosa.

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Il messaggio del grande Paese con i muscoli, ancora pronto al dominio e al successo, è stato rispedito al mittente dagli elettori, nonostante la fatica e i problemi che Obama ha incontrato sul suo cammino. Come molti fra gli analisti più attenti hanno rilevato, il presidente in carica doveva mobilitare categorie sociali che meno facilmente si recano alle urne: i latinos, in primo luogo – che stanno cambiando la geografia etnica del Paese – poi gli afroamericani, quindi le donne single e i giovani. Un’altra nazione, insomma, rispetto a quella degli uomini bianchi, per dirla con un po’d’ironia, che nell’America profonda sceglieva il candidato repubblicano. I risultati ci dicono che almeno in buona parte questa straordinaria operazione, una sorta di vera rivoluzione culturale, è riuscita.

Ma Obama ha anche trasmesso altri messaggi importanti. In un periodo di crisi sociale ed economica devastante ha parlato di solidarietà, ha fatto capire che aiutare chi è in difficoltà, fornire servizi pubblici efficienti, non significa certificare la fine del modello americano, del self made man, ma vuol dire provare a ricostruire i legami e i vincoli solidali all’interno della nazione. L’istruzione e la sanità sono stati fra i temi centrali del suo operato e della sua campagna, per questo è stato tacciato di socialista e di europeo dall’ala destra dei repubblicani. Ma il ‘welfere state’ è anche un grande capitolo della storia dell’America moderna, non appartiene solo all’Europa. La sentenza della Corte Suprema che ha ammesso la riforma sanitaria di Obama, è stata quindi il primo punto di svolta. Poi il capo della Casa Bianca ha individuato con chiarezza il suo blocco sociale: la middle class, la classe media, e l’ha distinta dalla minoranza di ultramilionari che pure detiene buona parte della ricchezza del Paese. Le tasse, ha spiegato, le paghino tutti, ma i super ricchi devono fare di più. Semplice e chiaro.

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Quindi, ancora, l’immigrazione,. La regolarizzazione di centinaia di migliaia di lavoratori immigrati dal centro e sud America che vivono negil States e alimentano la crescita degli Stati Uniti, i progetti di riforma di tutto il sistema migratorio, l’attenzione alle minoranze etniche che stanno diventando in molti casi maggioranze in diversi Stati, sono stati tutti elementi decisivi. Quello disegnato da Obama, nelle strette di una gravissima crisi economica, non è quindi il vecchio sogno americano che impallidisce nel secolo scorso, ma il Paese del futuro in cui anche le donne hanno diritti e ruolo. Per questo Obama non si è tirato indietro nemmeno sulla questione dell’aborto, ha difeso la legislazione che lo permette respingendo gli attacchi furenti delle organizzazioni pro-life di fatto svergognate da quei candidati repubblicani che sono arrivati a negare l’interruzione della gravidanza anche in caso di stupro e anzi hanno giustificato la violenza sulle donne.

Ma Obama, è stato, nei precedenti quattro anni, anche il presidente che ha evitato altre guerre, l’uomo del multipolarismo, il leader capace di governare un Paese nel momento in cui altri grandi soggetti continentali comparivono all’orizzonte. Questa resta una sfida difficilissima per il Presidente rieletto.

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Da non sottovalutare, infine, anche i risultati dei referendum in diversi Stati. La Florida ha respinto in modo netto i tentativi ultraconservatori di limitare a casi eccezionali la possibilità di abortire. In Maryland e in Maine sono passati invece i quesiti relativi all’ammissione dei matrimoni gay – tesi pure sostenuta dal Presidente – e in Colorado la cannabis è stata legalizzata. Tutto sembrava impossibile, tutto, oggi, sembra possibile.



  OBAMA: FOUR MORE YEARS


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