Curdi. Rezan Kader: "Il mosaico iracheno si è incrinato"
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Curdi. Rezan Kader: "Il mosaico iracheno si è incrinato"

Intervista a Rezan Kader, rappresentante del governo regionale curdo. Le polemiche in Iraq ruotano intorno a 2 questioni: Costituzione e divisione degli utili del petrolio.

Curdi. Rezan Kader: "Il mosaico iracheno si è incrinato"
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5 Gennaio 2013 - 09.05


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di Francesca La Bella

In una fredda mattina di dicembre ci troviamo a parlare con Rezan Kader, alto rappresentante del Governo Regionale Curdo (KRG) in Italia, dell’attuale situazione del Kurdistan iracheno e delle problematiche che stanno compromettendo i rapporti della regione con il Governo Centrale Iracheno. La discussione, che si snoda tra ricostruzione storica e analisi del presente, proverà a presentare il punto di vista di una delle parti in causa e le principali motivazioni alla base del confronto/scontro tra Erbil e Baghdad.

Il Kurdistan iracheno gode di un certo grado di autonomia nell’area a nord del Paese. Mi può spiegare come si è giunti a questo status?

Durante la guerra del Golfo, anche grazie all’istituzione di una no-fly-zone nel nord del Paese, la popolazione è riuscita a liberare il territorio a maggioranza curda e a dar vita a un nuovo governo. Così nel 1992 è nato il Governo Regionale del Kurdistan Iracheno. In quel momento il Paese era completamente distrutto. Eravamo stati bombardati con le armi chimiche ad Halabja, su 5000 villaggi, 4500 erano distrutti, le città erano un disastro e la gente non aveva niente. Il popolo curdo ha, quindi, deciso di creare un governo regionale con ministri, vice-ministri e parlamento che avviasse la ricostruzione della regione.

Così come nel 1992 avevamo avviato la ricostruzione della nostra regione, nel 2003 abbiamo cercato di costruire l’Iraq insieme all’opposizione irachena. Abbiamo contribuito a creare il nuovo Iraq e nel primo governo post Saddam il Presidente era il curdo Jalal Talabani, il vicepremier era curdo e il ministro degli esteri era ugualmente curdo. Per questo motivo ci sentiamo anche parte integrante dello Stato iracheno.

Se da un lato abbiamo fatto del Kurdistan un esempio per tutto l’Iraq, dall’altra abbiamo lavorato per la ricostruzione di tutto il Paese. La ricostruzione è stata possibile anche grazie a Paesi amici che ci hanno sostenuto diplomaticamente e ci hanno insegnato cosa è la democrazia e come va portata avanti. D’altronde noi siamo neo-democratici ed avevamo bisogno di questo aiuto.

Questa situazione di apparente cooperazione sembra essersi incrinata nell’ultimo periodo, mi può spiegare perché?

Ad oggi il governo iracheno continua ad essere votato ed eletto e tra i ministri sono rappresentate tutte le componenti etniche, curdi compresi. Parallelamente, per quanto non ci siano le quote rosa, molte donne, anche curde, siedono in Parlamento.

Se lei visitasse oggi l’Iraq e il Kurdistan le sembrerebbe, però, di stare in due mondi diversi. In Kurdistan è tutto un cantiere, grattacieli e palazzi arrivano fino al cielo e la regione ha vinto il premio come capitale del turismo dei Paesi arabi. Baghdad, invece, è talmente distrutta che viene chiamata la capitale più sporca del mondo. Noi abbiamo iniziato a ricostruire la nostra regione ed abbiamo cercato di aiutare anche il resto dell’Iraq a fare la stessa cosa, ma questo non avviene. Questo perché molti hanno ancora una mentalità da ex-baahtisti: una mentalità di invidia e di non dialogo. Non riconoscono il nostro impegno e non possono accettare la prosperità del Kurdistan. Dicono, ad esempio che prendiamo il 17% dei proventi petroliferi del Paese, ma non siamo mai saliti oltre il 13%-14% a causa dei tagli del Governo Centrale.

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L’Iraq è un bellissimo mosaico, ma ad oggi questo equilibrio si è, anche se solo parzialmente, incrinato. Per questo noi crediamo ad un Iraq democratico, che rispetti una Costituzione votata da più dell’80% della popolazione, ma crediamo che l’unica ricetta efficace sia quella di un Iraq federale che tenga conto delle necessità di tutte le etnie, di tutte le religioni e di tutti i popoli.

Le polemiche sembrano ruotare principalmente intorno a due questioni. L’applicazione dell’articolo 140 della Costituzione in merito alla giurisdizione su alcune aree contese come le province di Kirkuk, Salah’din, Ninive e Diyala e la divisione degli utili del petrolio. Sappiamo che le aree contese di cui si parla nell’articolo 140 hanno subito un’opera di arabizzazione durante il governo di Saddam Hussein, ma vorremmo sapere, ad oggi, in che condizioni si trovano, quali passi sono stati fatti per l’applicazione di questo articolo e quali sono le vostre richieste in merito.

Queste sono città dell’Iraq, sono città che sono state arabizzate, ma sono città che hanno identità curda. Nessuno dei passaggi previsti dall’articolo 140 è stato portato a termine e, nonostante degli impegni scritti firmati da Al Maliki in persona, non si è giunti a nulla. Nel 2010, a seguito dell’importante ruolo svolto dal Presidente Barzani nella creazione del nuovo governo nazionale dopo otto mesi di vacuum, sembrava che ci fosse qualche possibilità in tal senso in quanto Al Maliki si era impegnato a dare seguito alle previsioni dell’articolo 140, ma così non è stato. Noi non chiedevamo che queste zone entrassero a far parte della regione curda, ma che venisse concesso al popolo di decidere se stare con il Governo Regionale Curdo o no.
Ad oggi la nostra richiesta è sempre questa, ma la situazione è problematica. Invece che lavorare alla ricostruzione del mosaico iracheno, Al Maliki ha scelto di inviare le sue forze armate verso i confini del Kurdistan. In queste aree ha fatto schierare il contingente Dijlah (N.d.A: dal nome arabo del fiume Tigri – conosciuto anche come Tigris Operations Command). Metà di loro sono gli ex-baahtisti che nel 2003, per conto di Saddam, erano in guerra contro di noi negli stessi territori dove si trovano ora.

In questa situazione noi abbiamo scelto di difendere la nostra terra e tutti i popoli, le etnie e le religioni che vi sono rappresentate, non solo il popolo curdo. Noi non attacchiamo nessuno, ma la difesa è una cosa legittima e noi abbiamo intenzione di portarla avanti. Infine, è importante sottolineare che noi non vogliamo entrare in guerra con i nostri fratelli, noi non abbiamo una divergenza con il popolo iracheno, ma con il suo governo e, in particolare con Al Maliki, un Primo Ministro che viola costantemente la nostra Costituzione con le sue azioni.

Per quanto riguarda la questione della divisione degli utili dell’estrazione petrolifera la questione ruota principalmente intorno alla concessione di estrazione data alla statunitense Exxon Mobil e alla costruzione di un nuovo tratto dell’oleodotto Kirkuk-Ceyhan che porterebbe direttamente il petrolio dal Kurdistan iracheno alla Turchia. Ci può spiegare perché e in quale misura questi due annunci sono stati fonte di dissapori tra voi e il Governo Centrale Iracheno?
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La Costituzione irachena ci permette di sviluppare quello che c’è in territorio curdo quindi con queste azioni noi non violiamo assolutamente la Costituzione dell’Iraq (N.d.A: come, invece, viene loro imputato dal Governo centrale). Se l Exxon Mobil ha scelto di operare in Kurdistan e non in Iraq è Al Maliki che dovrebbe porsi il problema, non noi. Grandi aziende come questa, infatti, hanno bisogno di sicurezza e noi possiamo assicurargliela mentre il Governo iracheno no. A questo si aggiunga che questi soggetti credono nel Governo Regionale del Kurdistan perché sanno che noi non deludiamo chi ci affida qualcosa, mentre il governo di Al Maliki spesso ha deluso le aspettative degli investitori.
Per quanto riguarda l’oleodotto noi abbiamo bisogno di uno sbocco diretto verso la Turchia perché la Turchia è il nostro ponte per l’Europa. Questo non toglie che possa diventare un progetto dell’intero Iraq e non solo del Kurdistan. A ben guardarlo, questo progetto è un grande favore che noi facciamo a tutto il Paese, ma questo non viene capito.

Da quando il vostro protagonismo internazionale ha iniziato a crescere, voi e il Governo Centrale vi siete trovati spesso su piani contrapposti. In tal senso i rapporti con il governo turco e il coinvolgimento nella questione siriana hanno sicuramente portato ad un cambiamento della posizione del Governo Regionale Curdo negli equilibri nell’area. Quanto questo ha inciso sui vostri rapporti con il Governo Centrale?

Il Kurdistan ha come vicini di casa la Turchia, l’Iran e la Siria e noi cerchiamo di mantenere con loro rapporti di buon vicinato e di aiutare chi ha bisogno di noi.

Con la Turchia, in particolare, intercorrono buonissimi rapporti. In primo luogo perché è uno dei Paesi importanti dell’area, in secondo luogo perché è il nostro tramite per l’Europa e, infine, perché le prime compagnie che hanno creduto di poter ricostruire con noi il Kurdistan sono state turche.
Facciamo, quindi, di tutto per mantenere buoni rapporti con i nostri vicini, ma non interferiamo negli affari interni degli altri Paesi e non vogliamo che altri interferiscano nei nostri. Se questo a Baghdad non piace, il problema non è nostro. Nessuno ci spingerà a far la guerra ai nostri vicini per suoi interessi, noi vogliamo solamente vivere in pace e risolvere con il dialogo quello che altri vogliono risolvere con le armi.
Per quanto riguarda la Siria, la situazione attuale è delicata. Aprire la nostra frontiera in una situazione come questa è un dovere nei confronti dei fratelli curdi che vivono in Siria e di tutti gli uomini, le donne, gli anziani e i bambini che vogliono lasciare il Paese. In questo momento ci sono più di 36000 profughi siriani in Kurdistan. Cerchiamo di aiutarli il più possibile, ma è un corridoio umano, niente di più.

Da questo punto di vista esistono gruppi politici curdi sia in Iran sia in Siria e Turchia. Formazioni politiche con scelte e percorsi differenti rispetto ai vostri sia nel passato sia nell’attuale contesto. Quali sono i vostri rapporti con loro? Esistono prospettive di percorsi politici comuni in futuro?
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Non si può negare che in Iran, Turchia e Siria esistono dei fratelli. Posto questo, noi crediamo che i fratelli vadano aiutati facendo capire loro che devono percorrere la strada del dialogo con i loro Governi per poter ottenere, senza uso delle armi, quello che vogliono dentro il territorio dello Stato di cui fanno parte. Per quanto riguarda il PKK (N.d.A: Partito dei lavoratori del Kurdistan), il Presidente Barzani ha sempre cercato di fare da ponte tra loro e il governo centrale della Turchia. L’epoca delle armi è passata, di sangue ne abbiamo visto tanto e crediamo sia il momento di abbandonare la pratica di resistenza sulle montagne per sedersi a un tavolo tutti insieme e trovare un accordo. Questo è il nostro messaggio per i fratelli in Iran, Turchia o Siria.
Ad oggi la situazione in Siria è, però, ben diversa.

Bashar al Assad ha le mani piene del sangue del suo popolo e non so fino a quando gli occidentali e anche buona parte degli stati del mondo orientale potranno permettere che un leader uccida il suo popolo. Per quanto ci riguarda i curdi fanno parte di quel popolo, molti non hanno cittadinanza e ad alcuni viene persino negata anche la carta d’identità. Noi speriamo che la Siria volti pagina e che il popolo curdo possa ottenere in quel Paese quello che abbiamo ottenuto noi nel nostro. Il nostro messaggio a loro è che i curdi siriani devono essere uniti tra di loro per ottenere quello che vogliono. Altrettanto consigliamo ed auguriamo ai curdi degli altri Paesi.

Ultima domanda. Le prospettive future. Talabani come mi diceva lei è stato fondamentale nell’opera di mediazione, di bilanciamento delle forze in campo e anche come figura carismatica nella storia dell’Iraq e nella storia del Kurdistan iracheno, ora c’è una situazione di difficoltà che speriamo non intacchi questo dialogo. Volevo chiederle come vede il futuro dell’Iraq e quali forze potranno farsi mediatrici di questa situazione.

Il presidente Talabani è uno dei leader più famosi e importanti per il popolo curdo ed è sempre stato una figura fondamentale nel mantenimento degli equilibri tra le diverse soggettività presenti in Iraq. Dalle notizie che abbiamo sembra che si stia ristabilendo e che stia meglio e speriamo, quindi, che torni presto con noi. In tal senso non voglio immaginare altre figure di mediazione. Credo e spero che tornerà lui a svolgere questo ruolo.
Per quanto riguarda il futuro del nostro Paese, noi vogliamo che si giunga ad una soluzione. Noi speriamo in un Iraq in pace, democratico e federale nel quale ci sia uguaglianza tra ogni popolo, etnia o religione. Temo, però, che questa volontà non sia condivisa da Al Maliki. Sappiamo che anche tra gli sciiti c’è chi non appoggia il primo ministro, ma la sua risposta al dialogo è stato lo schieramento del contingente Dijlah e il futuro è incerto. Noi possiamo solo dire che cercheremo di mantenere il piano del dialogo, ma sicuramente non permetteremo a nessuno di distruggere quello che abbiamo realizzato.

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