Cosa succede in Eritrea? Colpo di Stato, lotta di potere, rivolta militare? Non si sa. Il presidente Afewerki ha ripreso il controllo della situazione oppure sta trattando? Non si sa. Gli ammutinati si sono ritirati o sono stati arrestati? Non si sa. Il regime si avvia a crollare o a un ennesimo giro di vite repressivo? Non si sa.
Sono poche e difficilmente verificabili le informazioni che filtrano da Asmara, sede – secondo le organizzazioni per i diritti umani – di uno dei governi più repressivi del mondo. Che però lunedì è stato messo sotto scacco, almeno per qualche ora. Un gruppo di 100 – 200 militari ha circondato la sede del ministero dell’informazione, poi ha costretto la televisione di Stato (la Eri -Tv) a sospendere le trasmissioni, e obbligato il direttore Asmelash Abrea a leggere un comunicato in cui si chiedeva il rilascio dei prigionieri di coscienza e l’applicazione della costituzione del 1997.
A distanza di poche ore, però, le trasmissioni sono riprese – con un notiziario registrato – ed è arrivato il comunicato del portavoce del governo, Yemane Gebremeskel: “Tutto è calmo, come del resto lo era ieri”. Insomma, ‘nulla è cambiato’, una frase il cui significato gli eritrei hanno già sperimentato per 20 anni, a partire dal 1993, anno del referendum che sancì l’indipendenza dell’ex colonia italiana dall’Etiopia.
Dopo l’indipendenza, Isaias Afewerki, leader del Fronte Popolare di Liberazione dell’Eritrea, fu nominato dall’Assemblea Nazionale capo provvisorio dello Stato. Una posizione in cui non è stato confermato da nessun voto: il giovane Stato africano non ha più indetto elezioni generali. Istituzioni democratiche e diritti erano previsti dalla costituzione del 1997, sospesa prima ancora di entrare in vigore. Gli anni dal 1998 al 2000 sono infatti stati per il Paese quelli della guerra con l’Etiopia, scatenata per ragioni di confine, e conclusa ufficialmente dagli accordi di Algeri, che però non impediscono al conflitto di continuare tuttora su scala più piccola.
In un contesto di diritti negati (Human Rights Watch ha parlato di “una prigione a cielo aperto”) e arresti arbitrari (si sono perse le tracce di vari giornalisti, e persino di ex ministri ed ex-combattenti per la libertà), il Paese è oggi di fatto militarizzato. La maggioranza dei cittadini è costretta ad un servizio militare pluridecennale, e proprio a giovani soldati, “nuove reclute e persone costrette ad arruolarsi” è da attribuirsi la rivolta di ieri, nelle parole di un attivista per i diritti umani intervistato da ‘Al-Jazeera’.
Altre ricostruzioni attribuiscono invece un valore politico ben più importante alla rivolta: i nomi del comandante Saleh Osman, considerato un eroe della guerra con l’Etiopia, e di Filipos Woldeyohannes, ex consigliere militare di Afewerki fatto arrestare nel 2012, circolano sui siti web che si interrogano sugli ispiratori dell’azione.
Pur non essendoci nessuna certezza sulle reali intenzioni democratiche dei rivoltosi, è difficile negare che molti fattori comincino a incidere in favore di un cambiamento, quale che sia. All’ombra di una probabile malattia di Afewerki – di cui si era parlato con insistenza negli scorsi mesi – le alte sfere militari starebbero già disputandosi la successione del presidente-padrone. Sul Paese pesano anche i cambiamenti geopolitici dell’area, prima tra tutte la morte – lo scorso agosto – del presidente etiope Meles Zenawi, storico nemico del capo dello Stato eritreo.
Secondo alcune pittoresche ricostruzioni giornalistiche i due – già combattenti partigiani nei rispettivi territori – sarebbero stati addirittura parenti: in effetti entrambi appartengono all’etnia tigrina. In realtà ognuno ha rappresentato per l’altro soprattutto l’alibi per restare incontrastato al potere. Rimane possibile immaginare che il crollo di uno dei due bastioni dell’immobilismo nel Corno d’Africa possa, in un tempo relativamente breve, avere conseguenze sull’altro.
Qualunque sia la verità sui fatti di Asmara e sulle presunte trattative intavolate – secondo siti d’opposizione della diaspora – dal governo con gli ammutinati, un elemento sembra insomma emergere dalla confusione eritrea. Lentamente, nel Paese, qualcosa si muove.