Bye bye Europa, per gli Usa conta il Pacifico
Top

Bye bye Europa, per gli Usa conta il Pacifico

Joe Biden, vicepresidente Usa ci ha avvertito: due obiettivi a breve termine. La questione nucleare iraniana e poi l'interesse Usa passerà al Pacifico. [Ennio Remondino]

Bye bye Europa, per gli Usa conta il Pacifico
Preroll

Desk Modifica articolo

9 Febbraio 2013 - 19.01


ATF

di Ennio Remondino

Alleanza Atlantica da museo. Un pezzo di storia. Secolo scorso. Monaco, durante la “Conferenza Internazionale sulla Sicurezza” di febbraio, il vice Presidente statunitense Joe Biden ha indicato i due obiettivi strategici a breve termine per il suo Paese. Uno, l’Iran, per evitarne “l’illecito e destabilizzante programma nucleare”. Due, lo spostamento strategico dell’interesse statunitense dall’Atlantico al Pacifico, divenuto nuovo baricentro geopolitico. Provando a tradurre, cari lontani cugini europei, le grane del bacino mediterraneo e mediorientali sono ormai tutte vostre. Avete la Nato, sotto il nostro comando, ma soldi e armi ora toccano a voi. Esempio? Libia e Mali, dove noi vi diamo satelliti e, al massimo, qualche drone assassino per i lavori più sporchi. In Siria in realtà stiamo facendo qualche cosa di più, ma soltanto per lavorare di sponda contro l’Iran. Perché sia chiaro, direbbe Biden o lo stesso Obama, tutto ciò che minaccia Israele resta “Cosa nostra”. Chiarito ciò, il resto sono affari vostri.

Cambiamo Oceano. La crisi finanziaria che ha indebolito Usa e Occidente ha disegnato una geopolitica nuova per due scenari affrontati da Biden a Monaco: altri Paesi emergono come protagonisti. Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica -il Brics- economicamente e strategicamente importanti che intendono difendere i propri interessi senza dover chiedere il “Washington Consensus”. La Cina, con investimenti, aiuti, finanziamenti e un’economia in crescita ha consolidato una posizione non più secondaria ad alcun Paese. Al contrario, gli Usa devono fare i conti con il costo delle guerre in Afghanistan e Iraq che, secondo lo studio della “Brown University of Providence” del giugno 2011, erano ormai vicini ai 4 trilioni di dollari (4 mila miliardi di dollari), con costi umani stimati dalla stessa Università tra i 250 e i 258 mila morti -tra cui 6.100 militari Usa- oltre 125 mila morti in Iraq e 14 mila in Afghanistan, escludendo qualche migliaio caduti in Pakistan. E fra i 7 e gli 8 milioni di profughi.

Superpotenza addio. Il declino statunitense è percepito soprattutto dalla sua middle class ed ha radici economiche evidenziate nell’agosto 2011 dall’agenzia di rating “Standard & Poor’s” che declassò gli Usa da AAA ad AA+, mentre l’agenzia cinese “Dagong”, che aveva già stimato il credito americano come A+ nel novembre 2010, l’anno successivo lo ha indicato in A-. La stessa Cina, peraltro, con 1,6 trilioni di dollari in buoni del Tesoro sul debito complessivo americano, -ben 16,6 trilioni di dollari- guarda con preoccupazione a un eventuale deprezzamento della valuta statunitense che comporterebbe un grave danno alla sua stessa economia. Evitare il calo delle sue esportazioni negli States e le rendire dei suoi investimenti Usa aumentati, dal 2003 al 2011, da 255 a 1159 miliardi di dollari. Di fatto, la Repubblica Popolare ha ancora bisogno degli Stati Uniti consumatori dei suoi prodotti, come lo è, in misura certamente minore, di una Europa dell’Euro in ripresa, a costo di qualche investimento incerto.

Ma la Cina non aspetta. Per superare il problema, il “Consiglio di Stato”, l’Esecutivo della Repubblica Popolare, ha elaborato una serie di obiettivi: potenziamento della domanda interna investendo in istruzione e sanità. Incentivazione dell’economia verde. Modernizzazione delle capacità militari per fronteggiare sfide tradizionali e asimmetriche e la minaccia proveniente da separatismi e terrorismo -chiaro il riferimento alle rivolte nel 2009 e 2010 degli uiguri, popolazione turcomanna e musulmana della Regione Autonoma dello Xinjiang- al fine di “rafforzare la sicurezza della Cina e proteggere il suo sviluppo pacifico”. Su quest’ultimo punto, il bilancio per la Difesa ha aumentato gli investimenti nel 2012 dell’11,2% rispetto all’anno precedente, con un budget di 670,2 miliardi di Yuan -81 miliardi di euro- oltre all’aumento dell’11,5% della spesa per la sicurezza interna. Il programma nucleare viene definito della U.S.Air Force “il più attivo programma di sviluppo di missili balistici al mondo”.

Evoluzione Usa a Darwin. La sfida strategica e militare alla Cina, potenza egemone nel Pacifico, viene lanciata il 17 novembre 2011 dal Presidente Usa, davanti al Parlamento australiano. Obama dichiara Darwin -città portuale del nord australiano, a 820 km dalle coste indonesiane e non lontano del Mare cinese del sud- nuova base strategica per l’area “Asia-Pacifico”. Programma “Pacific pivot”. Darwin ha accolto nel 2012 una portaerei e 400 truppe speciali destinate a diventare 2550 entro 4 anni, per un costo valutato in 450 miliardi di dollari in 10 anni. Ovviamente Pechino ha affidato all’agenzia di stampa ufficiale Xinhua una nota che stigmatizza l’attività statunitense nella Regione per “le decine di esercitazioni militari con i loro alleati Giappone, Filippine e Corea del sud”. La Cina protesta soprattutto per la presenza americana, per la prima volta, al Vertice dell’ “Associazione delle Nazioni del Sud-est Asiatico” dove i rappresentanti statunitensi hanno potuto dire la loro sulle dispute nel Mare cinese.

Addio Atlantico. Lo spostamento dell’asse strategico Usa verso la Regione Asia-Pacifico diventa ufficiale al “Vertice sulla Sicurezza” a Singapore lo scorso giugno. Il segretario alla Difesa Leon Panetta affermò allora che entro il 2020 il 60% della flotta -282 navi da guerra- sarà posizionata nell’area del Pacifico e il restante 40% nell’Atlantico, contro l’attuale 50% fra i due Oceani. La precisazione del ministro secondo cui la decisione non “rappresenta una minaccia o una sfida alla Cina”, non convince Pechino. Anche perché gli Usa prevedono un aumento delle esercitazioni militari nel Pacifico e l’apertura di nuove basi in un’area di alta valenza strategica per le rotte del Mar Cinese del sud e lo Stretto di Malacca verso il Medio Oriente, maggiore fornitore energetico per la Cina. Pechino sta vigilando intanto l’inizio dei lavori sulla piccola isola sudcoreana di Cheju, destinata dal Governo di Seul ad ospitare una grande base navale -costo 1 miliardo di dollari- per navi da guerra e sottomarini degli Usa.

Super flotta. Nel Pacifico saranno dislocate sei portaerei, la maggioranza degli incrociatori, caccia torpedinieri, navi da combattimento e sottomarini. La sfida Usa alla Cina prosegue poi con missioni mirate nei Paesi del sud-est asiatico, Laos, Cambogia, Vietnam; e in Africa: Senegal, Uganda, Sud Sudan, Kenya, Malawi, Sudafrica, Nigeria, Ghana, Benin. In questo continente le compagnie petrolifere statunitensi sono dominanti, specie in Nigeria e Sud Sudan, e quelle agricole si accaparrano terre fertili e preziose materie prime, in aperta concorrenza con la Cina. Ben 5 milioni di cinesi sono presenti in Africa dove costruiscono porti, aeroporti, strade e ferrovie, oltre a essere uno dei maggiori fruitori energetici. Gli Usa, per contrastare la penetrazione cinese, si avvalgono, dell’Afric.Com. che “difende gli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti rafforzando le capacità di difesa degli Stati africani”, fino a condurre “operazioni militari per fornire un ambiente di sicurezza adatto al buon governo”.

Obama asiatico. A un anno esatto dal discorso tenuto davanti al Parlamento australiano, il Presidente statunitense -che ha ottenuto per il comparto difesa un bilancio di 613 miliardi di dollari per il 2013- fa un viaggio di tre giorni che lo porta in Thailandia, Birmania e Cambogia. E’ in quest’ultimo Paese che, all’East Asian Summit si tiene il primo dialogo tra il riconfermato Barak Obama e l’uscente leader cinese Wen Jiabao. Dopo i viaggi in India e Indonesia del 2010 e l’apertura della base navale a Darwin in Australia, il Presidente Obama, appare sempre più convinto che l’area Asia-Pacifico è il nuovo baricentro mondiale dove l’America deve conservare la sua leadership. Contro il temuto espansionismo cinese, il Vietnam ha già messo a disposizione Usa alcune basi militari e la Cambogia ha accettato l’assistenza militare statunitense per “addestramento anti-terrorismo”. L’America fuori casa vuole mettere becco nelle controversie tra Cina e Giappone sulle isole contese, ricche di giacimenti energetici off-shore.

Per un pugno di isole. Nel Mare della Cina orientale le isole contese sono Diaoyu o Senkaku, formalmente giapponesi e rivendicate da Cina e Taiwan; le Scarborough, rivendicate da Cina, Filippine, Taiwan e Indonesia; e le Spratleys, rivendicate da Cina, Filippine, Malaysia, Taiwan e Vietnam. Perché tante bramosie? Tra le isole transitano merci per 5 trilioni di dollari e i fondali oceanici sono ricchissimi di petrolio, gas, minerali e “terre rare”, i 17 metalli indispensabili nell’industria Hi Tech. Quindi l’egemonia sul Pacifico significa assicurarsi le materie prime a costi contenuti e conquistare la leadership nel mondo. Per questo gli Usa stanno riposizionando nel Pacifico la loro potenza militare mentre la Cina ha stipulato con la Russia il “Patto dell’Energia” e sta rinnovando le Forze armate. E si stanno delineando nuovi alleati e nuovi nemici tra la Cina che acquista i debiti dei concorrenti e gli Usa che finanziano gli alleati, potenziali nemici di Pechino: Brunei, Cambogia, Filippine, Malaysia, Singapore, Thailandia e Vietnam.

Predica la pace ma prepara la guerra. La Cina ha sempre dichiarato di voler risolvere i contenziosi bilaterali attraverso la diplomazia, senza uso di armi. Ma i dieci Stati Asean riuniti nel 2012, per la prima volta in 45 anni non sono riusciti a chiudere il Vertice con un documento comune. Mentre lo scorso 5 febbraio, il Premier giapponese Abe ha ventilato l’ipotesi di riformare l’articolo 9 della Costituzione secondo il quale “il popolo giapponese rinuncia per sempre alla minaccia dell’uso della forza per risolvere le dispute internazionali”. Quasi l’articolo 11 della costituzione italiana, dove si «ripudia la guerra». Il Giappone del dopo Hiroshima-Nagasaki quindi non può attaccare un altro Paese ma solo difendere i confini nazionali se attaccato. Una dichiarazione forte da parte del premier giapponese Abe, legata alla contesa con la Cina sulle isole Senkaku, perché una settimana prima nel Mar cinese orientale un cacciatorpediniere giapponese sarebbe stato inquadrato nel radar di puntamento di una fregata cinese.

Un Oceano niente affatto Pacifico.

[GotoHome_Torna alla Home]

Native

Articoli correlati