Bahrain due anni dopo, giovani stanchi di aspettare
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Bahrain due anni dopo, giovani stanchi di aspettare

La rivolta contro la monarchia sunnita compie due anni. Cominciati colloqui tra re e opposizioni ma i giovani, vittime della repressione, chiedono una lotta più dura.

Bahrain due anni dopo, giovani stanchi di aspettare
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14 Febbraio 2013 - 11.55


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di Michele Giorgio

Cosa accadrà oggi. Se lo chiedono in tanti in Bahrain in questo secondo anniversario della protesta simboleggiata dell’accampamento sorto, sull’onda delle rivolte arabe, in Piazza della Perla a Manama. Il 14 febbraio 2011 segnò il momento più alto della lotta contro la monarchia assoluta di gran parte della popolazione di questo minuscolo ma strategico arcipelago del Golfo. Le opposizioni puntano a tenere una manifestazione di massa nelle strade della capitale. Il governo, espressione della dinastia sunnita al Khalifa, non rimarrà a guardare ed è pronto a far intervenire le unità speciali delle forze di sicurezza.

Pronti a correre in aiuto di re Hamad al Khalifa ci sono anche i soldati dello «Scudo della Penisola», la forza congiunta delle sei petromonarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg). Due anni fa i soldati sauditi e i poliziotti degli Emirati furono determinanti per schiacciare la protesta di Piazza della Perla. Per la monarchia la popolazione, formata in maggioranza da sciiti (70% dei 600mila abitanti), in realtà non reclama sul serio diritti uguali per tutti e un parlamento degno di questo nome, ma scenderebbe in strada solo perchè «sobillata» dal «nemico iraniano». Una teoria respinta con sdegno dall’opposizione ma che ha garantito sinora a re Hamad il sostegno del Ccg e il silenzio colpevole degli Stati Uniti che in Bahrain hanno la base della lV Flotta.

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Due anni dopo la feroce repressione della protesta di Piazza della Perla, seguita dalle pesanti condanne al carcere per diversi esponenti dei partiti di opposizione e di attivisti dei diritti umani, in Bahrain soffia un vento diverso dal 2011. Gli scontri tra manifestanti e polizia sono diventati continui, quasi quotidiani, anche se in strada scendono meno persone. Dopo decine di morti (una ottantina per l’opposizione, circa 40 per le autorità), gli omicidi mirati compiuti da squadre della morte del regime, i giovani sono diventati più estremisti, meno disposti al compromesso politico. Durante gli scontri si coprono il volto con il passamontagna, scandiscono «Fino alla vittoria», ossia fino alla caduta del re, e sempre più spesso lanciano bottiglie incendiarie contro le auto della polizia.

Una radicalizzazione che porta tanti a seguire con indifferenza i colloqui appena cominciati tra l’opposizione e il governo. I leader storici della protesta fanno fatica a contenere coloro che chiedono l’avvio di una battaglia più dura contro la monarchia. «No alla resa, no al dialogo» scandiscono i più giovani che usano i vicoli del mercato di Manama per sfuggire all’arresto durante le manifestazioni. I social network servono a organizzare i raduni ma anche a contestare chi è troppo soft con la monarchia. Si moltiplicano gli appelli agli sciiti a resistere anche con la forza ai raid delle squadracce sunnite.

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Cresce il settarismo nonostante l’opposizione insista sempre sull’unità nazionale. Tra chi ha meno di 25 anni ben pochi danno ascolto al negoziatore dell’opposizione Abdulnabi Salman, che ha riferito di un «clima costruttivo» ai negoziati in corso con il regime. D’altronde Salman non può garantire che re Hamad stavolta non farà come in passato, un passo in avanti e due indietro, negando ancora una volta le aspirazioni di chi reclama uguaglianza e diritti. «Chi descrive come «inutile» il dialogo con la monarchia ha sempre più peso nelle strade – ha detto all’agenzia Ap Toby Jones, un esperto di Bahrain alla Rutgers University – è un clima che ricorda quello che si respirava durante le lotte degli anni Cinquanta e Sessanta… e questi gruppi (più radicali, ndr) non si faranno da parte facilmente, troppe cose sono accadute in questi due anni».

Un’atmosfera diversa che è conseguenza diretta della repressione del regime. In Bahrain il bilancio di sangue non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello della guerra civile in Siria. Ma è insopportabile la pressione delle forze di sicurezza su attivisti e simpatizzanti delle proteste contro il re. Più gli Usa tacciono e le altre petromonarchie del Golfo lo sostengono e più Hamad al Khalifa si sente abbastanza forte da rifiutare una richiesta elementare come un governo che goda della fiducia del Parlamento. Anzi gli altri sovrani e principi del Ccg lo incitano a «resistere al complotto iraniano», lo convincono che opporsi alla democrazia e al diritto in Bahrain è parte della lotta alla «Mezzaluna sciita» che minaccia il loro potere regionale.

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In Bahrain si è accorciato il percorso che porta a una lotta popolare più dura, anche violenta. Re Hamad però non vede e non sente.

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